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Paola De Simone

Rileggere la Cavalleria rusticana di Mascagni e, in generale, riesaminare le ragioni del breve ma intenso Verismo musicale italiano entro un orizzonte più ampio e con aggiornata lucidità storico-critica. Vale a dire, oltre l'epoca, i versi e i pentagrammi di una mera analisi drammaturgico-musicale per centrarne, piuttosto, il senso autentico e, forse, la strategia culturale puntando alla verità di quel che accadde al Sud dopo l'Unità d'Italia. Osservandone cioè la "povertà e miseria" quale "fondale necessario alla disperazione" dei suoi protagonisti, il trinomio di "umiltà, fede e camorra" che ne è alla base, la solitudine, i drammi "a punta di coltello", il primitivismo ancestrale, la religiosità e la superstizione, la vocalità tesa, fra melopea e urlo.

Una ferita ancora aperta che, all'ex Regno delle Due Sicilie, nel 1860 in testa fra gli Stati Italiani con oltre i due terzi della riserva aurea totale contata nella Penisola come ben ci ricorda il Nitti nei suoi Principi di scienza delle finanze, costò in cifre nell'anno 1861 durante ciò che è passato alla storia come "lotta al brigantaggio": già solo nelle terre del Napoletano, "8.969 fucilati, tra i quali 64 preti e 22 frati; 10.604 feriti; 7.112 prigionieri; 918 case e 6 paesi interamente bruciati; 2.905 famiglie perquisite; 12 chiese saccheggiate; 13.629 deportati; 1.428 comuni messi in stato d’assedio". È quanto osservato e ricostruito con rara sapienza, chiarezza di stile e sguardo ad ampio spettro storico-analitico, oltre che attualissimo, dalla giovane autrice e oggi avvocato Elisa Lucarelli (nella foto d'apertura) attraverso le 125 pagine del suo bel libro dal titolo "I disperati nel melodramma dell'Italia postunitaria", ricerca compiuta in sede di tesi musicologica discussa presso la "Sapienza" di Roma sotto la guida del professore Andrea Chegai (correlatore Antonio Rostagno), rivista, ampliata e appena pubblicata per i tipi della Edicampus. Quindi, in presentazione al pubblico di Napoli domani pomeriggio, giovedì 6 dicembre alle ore 17, nella Sala Rari della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III. Dopo i saluti del direttore Francesco Mercurio, accanto all'autrice romana diplomatasi in pianoforte, laureatasi in legge alla "Sapienza" di Roma più, in parallelo, specializzatasi in Didattica della musica al Conservatorio di "Santa Cecilia" e laureatasi in Musicologia, ci saranno Giorgio Ruberti, docente all'Università Federico II di Napoli, autore della Prefazione, e la sottoscritta.

(Nelle immagini a seguire: un bozzetto di scena per il melodramma "Mala Vita" di Umberto Giordano, un ritratto dell'autore e il frontespizio dello spartito a stampa)

Partendo dunque da una semplice chiave etimologica (ossia, dall'ineluttabile desperatio - de, allontanamento, dalla speranza spes - dei suoi protagonisti) e guardando con lucida modernità allo sfondo unico di un Meridione disprezzato, saccheggiato, umiliato e strategicamente messo in ginocchio all'indomani dell'Unità d'Italia, l'autrice osserva e documenta l'intero quadro storico-politico e antropologico, sociologico, culturale e linguistico per comprendere le premesse e i termini da cui fiorì il Verismo del nostro teatro musicale. Quindi, attraversando il modello letterario verghiano, e fino ad arrivare all'analisi di tre precisi exempla

di melodrammi "plebei" (Mala vita di Umberto Giordano, Malìa di Francesco Paolo Frontini e A basso porto di Nicola Spinelli) fra gli 84 individuati da Scardovi fra il 1890 della Cavalleria e il 1934 dell’Ave Maria di Donini (lista a cui potremmo aggiungere La caccia al lupo ad oggi inedita di Aladino Di Martino, atto unico composto a Napoli nel 1978 sul testo di Vittorio Viviani e in scena al San Carlo nel maggio 1979), l'autrice Lucarelli affonda la penna nella “controstoria” del Risorgimento italiano, quella narrata dalla parte dei "vinti", subìta da un Regno dalla prosperità invidiabile in termini di sviluppo demografico ed economico, per la promozione delle arti e dell'architettura, delle scienze, del sapere e dell'industria manifatturiera. Offrendo a tal merito, nel primo dei tre capitoli, una sintesi folgorante, di verità drammatica: "Il 13 febbraio 1861 - scrive Elisa Lucarelli nel paragrafo intitolato "Il morbo dell'Unità d'Italia" - con la caduta della fortezza di Gaeta, il Regno delle Due Sicilie, questo Stato indipendente, prospero e fecondo, affondò nella disperazione più profonda. Ma quali furono gli avvenimenti che condussero a questa capitolazione? Il morbo dell’Unità nazionale si era diffuso, un’Unità però frettolosa e accompagnata da un processo culturale, il Risorgimento, volto a rifare gli italiani secondo un progetto di ingegneria sociale, caratterizzato dal relativismo delle idee e delle religioni, pronto ad estirpare le radici di un patrimonio storico che seppur frammentato, era ben presente sul territorio. Un movimento che con Cavour, Mazzini e Garibaldi, puntava a fare dell’Italia un’appendice del Piemonte, grazie all’aiuto dell’esercito Napoleonico e dei soldi inglesi [...]".

(Nelle immagini: ritratto di Francesco Paolo Frontini; frontespizi del melodramma "Malìa" e del dramma lirico "A basso porto" di Nicola Spinelli).

E ancora: "Nel mese di gennaio 1861 Cavour si accordò con Napoleone III per il ritiro delle navi francesi, che avevano impedito l’assedio via mare e la flotta piemontese bloccò l’arrivo di rinforzi e cibo.

L’artiglieria sabauda centrò un magazzino di munizioni facendo esplodere oltre 7 tonnellate di polvere da sparo e 42.000 cartucce da carabina e da fucile: morirono 316 artiglieri napoletani e 100 civili. Cinque giorni dopo Francesco II, per risparmiare ai suoi uomini ulteriori lutti e sofferenze, incaricò il governatore della piazzaforte di negoziare la resa. Cialdini continuò a bombardare. La capitolazione – con l’onore delle armi – avvenne il 13 febbraio 1861: l’assedio era costato 367 caduti ai piemontesi e migliaia ai napoletani. Eroico fu Francesco II, il giovane Re napoletano, eroica fu la sua consorte Regina Maria Sofia, ormai innamorata del suo popolo e del suo regno, eroica fu l’intera popolazione. Con la capitolazione di Gaeta ebbe fine l’epoca del glorioso Regno delle Due Sicilie che aveva fatto dell’Italia Meridionale uno Stato autonomo ed indipendente, prospero e moderno".

Da qui l'indagine fra le pareti di un'Italia unita andata a dividere gli scrittori e a impoverire il Sud, fra le "istantanee del Verga", il teatro della nuova Italia, le forme letterarie e teatrali in quanto denuncia sociale e il caso specifico della tradizione di Napoli.

E, a seguire, la folla dei personaggi disperati, abbandonati a se stessi in esterni desolati e fra i soggetti dal carattere realistico e sanguigno, divorati da odio, rancore, gelosie, adulteri e vendette, violenze e morti di una brutalità di matrice quasi primitiva. Fra gli altri ingredienti della ricetta verista, inoltre, il linguaggio d’uso con elementi dialettali e popolari autentici, la contemporaneità della vicenda, l'ambientazione realistica nell’Italia meridionale e con spiccata attenzione per la couleur locale, il taglio religioso-popolare, con innesto di preghiere, inni, processioni, matrimoni, feste paesane.

Infine, senza qui svelare troppo, un'intuizione importante indicata da Elisa Lucarelli alle spalle della genesi della Cavalleria rusticana di Mascagni (nella foto a seguire), unitamente ai Pagliacci di Leoncavallo considerata opera emblema del Verismo musicale italiano (anche se Mascagni non fu mai d’accordo con tale definizione), oltre il modello naturalistico francese, le fonti di Verga e Capuana, i compositori appartenenti alla cosiddetta «Giovane Scuola» andata ad unire per generazione più che per una cifra comune Mascagni e Puccini (formatisi presso il Conservatorio milanese sotto la guida di Ponchielli) con Leoncavallo, Cilea e Giordano (presso il Conservatorio di Napoli), con relative affinità di stile giocate sulla vocalità piena e di registro medio-acuto, divisa fra il parlato, espansioni liriche e l'urlo rabbioso. Al margine, qui ricordiamo velocemente anche gli altri compositori rusticani: il torinese Stanislao Gastaldon con Mala Pasqua (Roma, Teatro Costanzi, 1890), il fiorentino Oreste Bimboni con Santuzza (Palermo, Politeama Garibaldi, 1895), il genovese Domenico Monleone con un’altra Cavalleria rusticana (Amsterdam, 1907) mentre il primo compositore ad aver trattato il soggetto di Verga, anche se non per il teatro d’opera, era stato Giuseppe Perrotta, catanese, che nel 1884 aveva scritto un bozzetto sinfonico in due parti col medesimo titolo.

Il successo del primo e se vogliamo unico capolavoro fra i 16 titoli composti dal compositore livornese fu enorme sin dalla prima rappresentazione, avvenuta al Teatro Costanzi di Roma il 17 maggio 1890. E rapidissima, sappiamo, ne era stata la genesi: l’11 luglio 1888 l’editore milanese Edoardo Sonzogno bandì un concorso per giovani compositori invitati a presentare un’opera inedita in un atto unico. Il premio prevedeva, oltre a una somma in denaro, la rappresentazione dell’opera al Teatro Costanzi. Il livornese Mascagni all’epoca viveva in Puglia, a Cerignola, dove per guadagnare qualcosa dirigeva la banda del paese. Venuto a conoscenza del bando del Concorso solo due mesi prima dalla chiusura delle iscrizioni, chiese al suo amico Giovanni Targioni-Tozzetti, poeta e professore all’Accademia Navale di Livorno, di stilare in tempi brevi un libretto. La fonte letteraria scelta dal poeta fu l’omonima novella di Verga, rielaborata con Guido Menasci e concordata nelle modifiche via posta, inviando i versi attraverso una molteplicità di cartoline al compositore Mascagni. L'opera fu terminata l'ultimo giorno utile per l'iscrizione al concorso, nel maggio 1889. In tutto, furono esaminate 73 opere e, il 5 marzo 1890, la giuria selezionò le tre opere da rappresentare a Roma: Labilia di Nicola Spinelli, Rudello di Vincenzo Ferroni, Cavalleria rusticana del ventisettenne Pietro Mascagni. Ebbene, nella Prefazione del professore Ruberti, e in aggancio nel terzo capitolo del testo, si scoprono ragioni e un nome a tal fine importanti. Amintore Galli che, tra il 1880 e il 1887, aveva pubblicato sul «Teatro illustrato» - la stessa rivista promotrice del concorso del 1888 e di cui Galli era caporedattore - una serie di articoli additando sull'esempio della Carmen di Bizet lo stile verista quale nuova strada per il rilancio del melodramma italiano. Rivista che apparteneva, tra l'altro, all’editore Edoardo Sonzogno, con cui Galli collaborava in qualità di direttore artistico. Galli era inoltre commissario con Platania, D’Arcais, Marchetti e Sgambati del concorso promosso dal «Teatro illustrato» nonché docente di Estetica al Conservatorio di Milano dove, fra i suoi allievi, c'era anche Mascagni tra il 1882 e il 1885. In conclusione? "È dunque molto probabile - spiega il professore Ruberti - che Mascagni avesse letto quegli articoli, che conoscesse le idee estetiche di Galli, che fosse cosciente della centralità di quest’ultimo nei circuiti ruotanti intorno a Sonzogno, e del fatto che questo editore stava allora investendo non poco nella creazione di una propria “scuderia” di compositori nel tentativo ambizioso di concorrenza a Ricordi. La scelta del soggetto verista operata dal compositore livornese, dunque, fu plausibilmente dettata dall’opportunità che esso offriva di ben figurare agli occhi di Galli, figura così influente nel coevo panorama musicale italiano. Ciò spiegherebbe perché, in vista del concorso, Mascagni decise di realizzare in tempi strettissimi Cavalleria rusticana, allorquando aveva quasi ultimata dopo anni di appassionato lavoro la composizione di Guglielmo Ratcliff, soggetto ben diverso che fu ripreso e messo in scena nel 1895".

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