Due grandi Butterfly per l'Opera di Roma che per prima sigla il trionfo europeo della stella Eleonora Buratto in tale ruolo pucciniano dopo il folgorante debutto al Met di New York. Nella produzione firmata Ollé e diretta da Roberto Abbado si lodano la Cio-Cio-San in secondo cast di Maria Teresa Leva, il Pinkerton di Luciano Ganci, la Suzuki di Anna Maria Chiuri, lo Sharpless di Frontali e Meoni
Foto di Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma
di Paola De Simone*
Applausi scroscianti e interminabili, lodi a gran voce e tante richieste di “bis” tributate dall’intero teatro a scena aperta già dall’ultima nota del suo sogno di smalto (Un bel dì vedremo), doloroso e d’incanto. Poi le meritate ovazioni a fine opera, con tutti gli artisti al proscenio.
Trionfa così, anche in Italia e per la prima volta in Europa, l’immensa geisha Cio-Cio-San del soprano mantovano Eleonora Buratto, Premio Abbiati nel 2022 e da due settimane Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana, grazie al palcoscenico del Teatro dell’Opera di Roma che per primo è riuscito ad assicurarsene il nome sulle assi del vecchio Continente dopo l’entusiastica consacrazione nel ruolo avvenuta nel marzo dello scorso anno sul soglio stellare del Metropolitan di New York. E a impatto immediato, ascoltandone il Largo cantabile di sortita mentre scende per il sentiero di collina con le sue amiche fra il fresco verde dei bambù e i dolcemente sinuosi intervalli della canzone di primavera, si ha la certezza di un Giacomo Puccini che ritrova alla fonte del gran canto italiano la sua Madama Butterfly più autentica, alta ed intensa. Quella d’esatta cifra naturalistica che con pari dominio e pienezza di tempra dà senso, verità e suono melodioso ad ogni accento e parola, gesto e colore, declamato, sfogato, in arioso o di conversazione che sia. Passando con saldo governo della parte dalla quindicenne leziosa, ma già pronta alla conversione di rito e bandiera, allo stato di giovane donna cresciuta in fretta nel dolore e nell’urto ferale di Oriente e Occidente.
In tale direzione Eleonora Buratto ricerca e conia un prisma articolatissimo di sfaccettature tecnico-espressive che dal grave all’acuto, fra sussulti improvvisi, affondi drammatici e acuti lucenti coronati da un folgorante re bemolle (magnifiche anche le altre puntature di cristallo, dei vari do e si bemolle), conservano mirabilmente la morbida linea del lirico puro (indimenticabile anni fa la sua miliare Bohème al Teatro San Carlo), per poi deflagrare con la forza ulteriore e tagliente del lirico spinto lungo una metamorfosi psichica ed emotiva che presto porta la sposa bambina a vibrare nel volo fra l’attesa ostinata e il sogno visionario. Fino a capire e a spegnere, tragicamente ad un tempo, l’illusione e una vita depredata in tutto, violata nell’amore (figlio compreso) come nell’onore. Purtroppo come a tutt’oggi ancora capita.
In scena c’è l’allestimento moderno quanto di viva suggestione e pertinenza – non nuovo – firmato da Àlex Ollé de La Fura dels Baus, già testato tre volte dalla stessa Fondazione dopo il varo del 2014 all’Handa Opera di Sidney in estiva ed esterna nei siti archeologici delle Terme di Caracalla (2015, 2016) e del Circo Massimo (2021) ma che nell’occasione, oltre alla maggiore concentrazione di un palcoscenico al chiuso e all’atteso esordio europeo della Buratto (per il cui ruolo alla première americana è stata addirittura creata dall’Avorius di Cortona un’eau de parfum sposando le note dolci di rosa e mughetto con le agrumate di zagara e pompelmo, il tutto in omaggio al modello immortale della Tebaldi), vantava per tanti versi elementi di rinnovato interesse. Innanzitutto, in termini di valore e merito fra primo e secondo cast vedendo su pari linea di eccellenza – tutta italiana – anche il debutto romano (dopo l’esordio al Liceu di Barcellona, il nostro Paese ne ha accolto l’assai pregevole interpretazione al Petruzzelli di Bari e al Carlo Felice di Genova) di una seconda, giovane Butterfly in notevolissima ascesa, nonché la prima Suzuki per una delle nostre più affidabili interpreti di corda mezzosopranile, un tenore pucciniano generoso e magnifico per il secondo Pinkerton, due Sharpless di lusso e il battesimo della sua prima Madama Butterfly persino per il più che navigato direttore sul podio.
Di spunti di assoluto rilievo sul tavolo dell’impresa e con entrambe le compagnie, in sostanza, ce n’erano tanti.
A cominciare dall’allestimento di taglio contemporaneo, di plasticità cinematografica e iperrealista, creato da Ollé ormai nove anni fa legando in coproduzione la Fondazione capitolina all’Opera Australia / Sidney Opera House, con debiti ritocchi per Caracalla, quindi per gli spazi del Circo Massimo e, in queste sere, per la sala teatrale del Costanzi. Con modifiche dagli effetti significativi non solo rispetto all’aperto ma, anche, presentando piccole varianti fra prima e seconda recita a fronte del diverso cast.
Il primo atto intanto, con scena bellissima di Alfons Flores più azione a sipario aperto già qualche istante prima della serrata Introduzione strumentale fugata, colpisce a fondo l’occhio quanto la mente, attivando una serie di richiami: un prato verdissimo e artificiale inclinato e misurato da un operaio (a mo’ del Figaro mozartiano) sui tre per la costruzione di quel che sarà un breve affare per l’americano Pinkerton e un sogno invece a lunga gittata proiettato verso il futuro per la delicata Butterfly, emblema di una società arcaica che arriva dolcemente da lontano cantando in coro la sua sinuosa melodia giapponese e ben chiusa in un candido (ma già prigione) abito-bozzolo. Al centro e sullo sfondo, rispettivamente, fronde di bambù e alte palme agitate leggermente dal vento, fra stormi di rondini e il rosso ciliegia delle nubi luminose al tramonto. Un quadro capolavoro filtrato ad arte dalle luci sempre sapientissime di Marco Filibeck (splendida già solo la fosforescenza delle foglie così come il sorgere del sole dopo la veglia estenuante) in unione ai video di Franc Aleu.
Un paradiso fittizio e perduto, bellissimo (molto simile, per vividezza, al giardino di betulle e tigli dei Larin nell’Onegindella Komische Opera Berlin, visto lo scorso anno al San Carlo, con la regia di Barrie Kosky premiata giorni fa con l’Abbiati), che accoglie in prima battuta il ricevimento in fieri dei parenti da matrimonio vero all’italo-americana, con tanto di violento ingresso dello zio Bonzo più relativi scagnozzi. Quindi, l’apice del duetto d’amore sotto il manto di stelle e una luna piena immensa, laddove Cio-Cio-San scoprendo timidamente le spalle mostra la grande farfalla che porta tatuata sulla schiena. Gli abiti di Lluc Castells assecondano quindi le linee variegate del pensiero registico, non mancando di rimarcare lo scontro fra i due mondi distanti e, in special modo, l’attualità dell’argomento.
L’atto a seguire vira invece sulla povertà sgangherata di una baracca che tradisce l’illusione d’amore con lo squallore di un quartiere-cantiere da turismo sessuale, con grattacieli di periferia sullo sfondo che crescono, si macchiano di sangue e muoiono con lei al terz’atto. Ossia decadendo insieme al sogno e alla vita della protagonista, qui stanca e dimessa in kimono, più jeans (non shorts e calze a rete, come nelle edizioni passate) e maglietta con tanto di bandiera americana stampata sul petto. Ancora qualche aspetto importante: l’idea di far sfilare il coro a bocca chiusa nella notte emulando una doppia fila di migranti ha il suo perché e la sua efficacia, anche se le torce puntate negli occhi del pubblico in platea non sono per noi l’ideale; di sensibilità rara e toccante è poi l’intera prossemica ritagliata per il bimbo Dolore (in realtà una bimba di quattro o cinque anni, bravissima) che si accascia con garbo e tenerezza unica sulla madre disperata in ginocchio o, ancora, che tenta di raggiungerla tirando la presa di Suzuki nel momento dell’addio; la giusta scelta di non mostrare in pubblico – come da didascalia in libretto dietro un paravento e dunque alla greca – il suicidio di Butterfly, che di fatto avviene entrando rapida nella baracca, per poi uscirne esanime fra le braccia dell’insulso Pinkerton recatosi infine a cercarla esclamandone verso il cielo per tre volte il soprannome.
Un’impronta complessivamente moderna e cinematografica che trova un valido corrispettivo sonoro nella lettura risoluta e a tinte nette scolpita dal direttore Roberto Abbado sul podio di Coro e Orchestra dell’Opera di Roma, come si diceva e per quanto sorprendente al suo esordio per tale capolavoro pucciniano.
La narrazione in partitura si dipana dunque per lo più velocemente (dilatato, al contrario, il duetto dei fiori) con opulenza di timbri e dinamiche che non di rado tendono a coprire le voci meno felici o voluminose (è il caso del primo Pinkerton e delle poche battute di Kate). La forza degli effetti è, ad ogni modo, viva e assicurata anche in virtù di una compagine strumentale di notevole prestanza. Pertanto, pur sorvolando su una specifica rifinitura miniaturistica dei dettagli, il complesso dedalo di temi e richiami a intarsio risulta costantemente coeso e ben a fuoco, con apici nella caratterizzazione di taluni personaggi (spicca il Goro alla Benoit), motivi (della maledizione e della spada ad esempio, come assai pregnante è la canzone “Nihon Bashi”) e vertici drammatici, come l’esplosione a piena orchestra al termine della lettera declamata nell’imbarazzo da Sharpless. Sontuosa e arrogante è la ridondanza dell’inno della Marina militare americana (poi dal 1931 degli States) a fronte del respiro alla Respighi conferito a quello del Giappone, ottimo il rilievo ottenuto dal gran lavoro dei legni (bravo il primo fagotto nel geometrizzare il matrimonio burletta), tintinnanti come sordi e potenti i colpi delle percussioni, di gran sollecitudine gli archi tutti. Vivide, inoltre, le suggestioni dell’ampio affresco sinfonico e dell’alba giapponese in apertura d’atto terzo (ossia, seconda parte dell’atto II), arricchitasi di fischietti e quant’altro alla seconda recita alla luce di un contesto dal migliore equilibrio generale.
Una valutazione di merito va senz’altro riservata al Coro, preparato ottimamente da Ciro Visco, sia per la qualità della lama ritmico-timbrica sfoderata in apertura del primo atto, sia per la non facile densità melodica messa a punto dalle sezioni di soprani e tenori innervandosi sulla tinta mesta e delicatissima della prima viola nella celebre pagina intonata a bocca chiusa.
In vetta, come accennato in apertura, brilla la Cio-Cio-San del soprano Eleonora Buratto, punta di diamante e leonessa dell’intero spettacolo. La tornitura al platino del suo cantabile all’ingresso in scena da lontano acquista peso e sostegno crescente ad ogni passo, suono, intervallo, valorizzandone in serrata endiadi il significato e il significante, nel testo come in pentagramma. La rotonda musicalità di ciascuna sillaba al pari della nobiltà della linea di canto, nel rispetto assoluto di colori, portamento, fiati, accenti e dinamiche, è cosa preziosa e rara, di fiera eredità tebaldiana oseremmo, conservata nei tanti scorci vocali misti (parlati, ariosi, doppio falsetto nella scenetta del tribunale narrata) e persino nei passaggi più ruvidi e drammatici.
Abile nella perizia ad ogni messa di voce, che sembra sorgere per graduale incanto, come nell’alone crepuscolare con cui incornicia gli acuti sospesi a lungo e poi dolcemente sfumati. Da “Vogliatemi … un bene da bambino” al finale del duetto d’amore dell’atto I per poi concentrarsi a costruire lungo un’unica, immensa arcata drammatica, un ritratto psicologico da super cantante-attrice, fatto di mille tasselli, sospiri, ripiegamenti. Magnificamente calibrato è l’eloquio “portato” in risposta ai timori di Suzuki, stupefacente il mondo di emozioni che tratteggia nel suo “Bel dì vedremo” siglato dal personale trionfo da oltre due minuti di applausi e fragorosi entusiasmi. Fitta di affetti contrapposti, poi, è la dolorosa scena della lettera e, in un crescendo interpretativo sempre più serrato in solitudine, di statura tragica altissima è il ritaglio del profilo materno tra il lacerato Andante molto mosso (Che tua madre vedrà) nella rara tonalità di La bemolle minore e lo straziante, ultimo abbandono (Piccolo Iddio) pensando al figlio.
In sintesi, una fenomenale Buratto che purtroppo non ha la fortuna, nel plot come sul palco, di trovare un partner se non ideale, come sognato e qui necessario, almeno congeniale. Eh sì perché, al suo fianco, a cantare Pinkerton c’è il tenore ucraino Dmytro Popov, voce ferma e di bel colore ma già di suo mal proiettata facendo leva in area tonsillare ma, cosa più lesiva ai fini dell’insieme (il duetto ne soffre al massimo grado), di stile eroico romantico ottocentesco, piuttosto consona al repertorio russo (Lenskij, in primis) o, eventualmente, da opéra lyrique. Nel visitare il suo “nido nuzïal” accanto al sensale Goro poco si sente e, per quanto di slancio nella sua aria di presentazione dalla morale libertina “Dovunque al mondo lo yankee vagabondo”, neanche col binocolo se ne intravede la “franchezza” prescritta per il suo canto che appunto, in direzione opposta alle intenzioni pucciniane, vira in chiave antinaturalistica, ora introiettando i suoni laddove è scritto piano e dolce o dolcissimo (in “Amore o grillo”, nel duetto fra il cantabile “Viene la sera” e l’Andante “Bimba dagli occhi piena di malia”), ora gonfiando il legato (Affonda l’àncora alla ventura) e rinforzando i pur centrati approdi all’acuto (la naturale, il si bemolle allargato nel suo “America for ever!” o nel successivo “furor”). Il momento migliore per lui arriva in compenso al termine, intonando finalmente con maggior scioltezza e sincerità di pasta lo stringato arioso aggiunto in seconda edizione “Addio fiorito asil”.
Una buona sorpresa arriva dal mezzosoprano Anna Maria Chiuri che, per la prima volta nella sua già ampia carriera, è andata a dar forma, voce e finalmente adeguato spessore alla figura di Suzuki, servente di carattere e sorta di coscienza che funge da fondamentale piano di rimbalzo emotivo, espressivo e gestuale alla stessa Butterfly. La sua emissione sicura nei registri come nel dosaggio dei fiati risponde a dovere alle diverse forme di canto assegnatele nell’opera, come nella cupa preghiera attraversata del motivo del suicidio del padre di Butterfly, o come nella sintonia rara nel delizioso duetto dei fiori (Scuoti la fronda), rondò ad acquerello e quasi a voce unica dai due diversi colori.
A dar vita e voce austera al console Sharpless è il sempre apprezzabile Roberto Frontali, anche lui referente indispensabile nel risalto di figura e canto di volta in volta al cospetto di Pinkerton, Cio-Cio-San, Suzuki. Di effetto, a tal merito, l’avvio del bel Terzetto in coda e il suo breve ma intenso assolo.
Giusto il timbro asciutto, chiaro e cinico di Carlo Bosi per Goro mentre cupo e tuonante è lo zio Bonzo Luciano Leoni.
Ferma restando la bella prova della Chiuri e degli altri intepreti per i personaggi minori, il secondo cast ha effettivamente restituito una diversa Butterfly, innanzitutto maggiormente bilanciata nella coppia dei protagonisti.
Una prima considerazione importante merita la Cio-Cio-San delicata e potente al contempo del soprano Maria Teresa Leva, soprano calabrese classe 1987, diplomatasi al Conservatorio “Francesco Cilea” e magnificamente cresciuta sul fronte tecnico e interpretativo con Donata D’Annunzio Lombardi. Che il ruolo, a lei particolarmente congeniale, sia stato già rodato in quattro precedenti produzioni risulta chiaro dall’agevole dominio con cui affronta e restituisce sia la non facile parte musicale, sia la parte espressivo-attoriale.
Musmè di seta finissima che al suo apparire già colpisce per il pieno governo di uno strumento canoro di bel velluto, proiettato e filato con sicurezza all’acuto. E di lì, nel corso di un’opera nella quale è quasi sempre presente, diventando giovane donna scolpita con piena padronanza in tutto il suo articolatissimo excursus drammatico, levigando ma sostenendo sempre con vigore ogni accento e dinamica, sia sul fronte musicale che scenico-espressivo. Rispetto alle prossemiche viste alla prima, sale più volte sul tetto, ed è lì che attende la nave. In magmatico crescendo emotivo l’intero finale ed infatti, anche per lei, vivissimi gli applausi.
Sul fronte maschile e rimpiangendo il non averlo potuto ascoltare in prima recita al fianco di Eleonora Buratto, il tenore Luciano Ganci ci pone innanzi un Pinkerton esemplare, di rara plasticità canora: timbro, stile e sentimento pienamente pucciniani, un corpo di voce imponente per fibra e giusta proiezione incanalata con sapienza in un fraseggiare sempre molto fluido, con qualche accenno, qua e là, di crudo naturalismo. Va da sé che il suo esordio, con una morale da duca di Mantova aggiornato, prende subito quota per slancio e bellezza dei suoni, andando a connotare una prima costruzione del personaggio più che credibile nella sua chiave amorosa. Analogamente il duetto cresce in passione magnetica, il suo conversare è sempre pregnante scoprendo man mano le sue vere intenzioni, il suo “Addio fiorito asil” in coda lascia dietro di sé un’impronta che resta da manuale.
Decisamente da lodare – più che altro un’ulteriore, grande conferma nel personaggio – è lo Sharpless di Giovanni Meoni, console di cuore e di statura decisivi per restituire in forma esatta il personaggio, nel fare, nel dire, nel canto. Il confronto della lettera con Butterfly tocca accenti di grande verità e, in via analoga, portante è il suo tributo al terzetto.
Completavano con dovizia il quadro il principe Yamadori di Eduardo Niave, la Kate Pinkerton di Ekaterine Buachidze, il commissario imperiale di Mattia Rossi dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma, Angela Nicoli (la madre), Cristina Tarantino (la cugina), Antonio Taschini (l’ufficiale del registro), Stefania Rosai (la zia), Maurizio Cascianelli (Yakusidè).
* L'articolo era stato scritto per il blog Connessi all'Opera di Roberto Mori. In attesa del ritorno del nostro amatissimo Direttore per la riapertura del sito e nel rispetto dell'impegno meritevole di tutti gli artisti coinvolti nella produzione, si è scelto di pubblicare la recensione sulla Quinta giusta, con dedica speciale all'insostituibile Roberto.
Teatro dell’Opera – Stagione 2022/23
MADAMA BUTTERFLY Tragedia giapponese in tre atti Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa Musica di Giacomo Puccini
Cio-Cio-San Eleonora Buratto / Maria Teresa Leva
Suzuki Anna Maria Chiuri
Pinkerton Dmytro Popov / Luciano Ganci
Sharpless Roberto Frontali / Giovanni Meoni
Goro Carlo Bosi
Zio Bonzo Luciano Leoni
Il principe Yamadori Eduardo Niave*
Kate Pinkerton Ekaterine Buachidze*
Yakusidé Maurizio Cascianelli
Il commissario imperiale Mattia Rossi*
L’ufficiale del registro Antonio Taschini
La madre Angela Nicoli
La zia Stefania Rosai
La cugina Cristina Tarantino
*dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Roberto Abbado
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia Àlex Ollé (La Fura dels Baus)
Scene Alfons Flores
Costumi Lluc Castells
Luci Marco Filibeck
Video Franc Aleu
Allestimento Teatro dell’Opera di Roma
in collaborazione con Opera Australia / Sidney Opera House
Roma, 16 e 17 giugno 2023
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