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Paola De Simone​ ​​ ​

Centocinquantasei pagine in quindici capitoletti, compreso avvertenza e un epilogo da cui salta fuori il titolo: "Meno grigi più verdi. Come un genio ha spiegato l'Italia agli Italiani", il librino – come ama definirlo lo stesso autore Alberto Mattioli, brillante giornalista del quotidiano La Stampa, esperto d’opera e saggista – uscito per i tipi della Garzanti nel febbraio 2018 e attualmente in presentazione fra le principali piattaforme librarie e teatrali italiane. Compresa la Campania che, con gran successo e un pubblico attentissimo fra cui tanti studenti del Conservatorio "Martucci", ha ospitato l'evento alla Feltrinelli di Salerno curato, nell'occasione, dalla docente di Storia della Musica Giulia Ambrosio (nella foto d'apertura).

Origine del titolo, così come Mattioli svela nel suo testo al termine, l'opera dello street writer Frode che, su una cabina elettrica in zona Scala di Milano (nella foto sopra), ha graffitato in color menta il celebre ritratto del musicista realizzato da Boldini – quello con tuba e sciarpa bianca – aggiungendovi appunto nell'angolo superiore la didascalia "- grigi + Verdi".

Ed ecco nata, dopo tanta storiografia sul massimo operista italiano, l'idea di una prospettiva nuova e modernissima, che guarda con occhi vivi e vivaci alla lirica, per parlare lo stesso linguaggio dei giovani. Obiettivo, portare il grande Verdi più vicino alle nostre coscienze. Lo stile di Mattioli è infatti arguto e immediato, fra descrizioni sferzanti e critiche rodate sul campo avendo recensito, fin qui, oltre 1600 spettacoli. Sceglie quindi un criterio strutturale preciso: una rosa di dieci titoli dal catalogo di Verdi: Stiffelio, la "Trilogia popolare", Un ballo in maschera, Don Carlo e le opere dell’ultima maturità, vale a dire Aida, Otello e Falstaff. Titoli che intersecano la storia e la società, la cultura e la mentalità degli italiani del secolo XIX, che non è poi - come si scopre via via leggendo - così diversa dal nostro tempo: stesso dna, stessi archetipi. Ed è così che si entra dritti nel mondo e fra i pensieri di Verdi, dietro le quinte della sua drammaturgia musicale, fra i suoi personaggi, con un’occhiata vigile e sempre ben documentata alle fonti secondarie – lettere in primis – quanto, al contempo, alla realtà performativa di oggi.

C’è grande consapevolezza fra le righe di Mattioli, non poca ironia. E pure qualche tirata. Tipo: “l’Italia ha il grande merito di aver inventato l’opera e la grande colpa di aver inventato quelli che ci vanno” o “i musicologi e i critici musicali conoscono (talvolta) la storia della musica, quasi mai la storia tout court”; o per inciso, a proposito di Aida, “gli elefanti io però non li ho mai visti, a parte qualche soprano”. E, fin su verso il finale, “il teatro, e massimamente il teatro di Verdi, è fatto per pensare. Se volete sognare, prendete qualche pillolina o qualche sostanza: a parte tutto, costano meno di un abbonamento al turno lusso della Scala”.

Per ogni opera scelta, si individua e si scioglie un nodo tematico. Ma, prima, si passa a comprendere nell’Avvertenza quanto sia indissolubile il binomio Verdi-Italia e dunque quel concetto di Storia, politica e sociale, che massimamente l’Ottocento di Verdi ha portato in primo piano e in palcoscenico, nel caso specifico con il compositore di Roncole di Busseto su doppio registro, mondiale e provinciale, cosmopolita e nazionale. A seguire, tre punti prospettici importanti, e inevitabili: l’uomo (una persona seria, austera, severa, di gran volontà. E generosissima, come dimostrano a tutt’oggi il folto carteggio e quella che lui considerava la sua “opera più bella”: la casa di riposo in cui ha voluto essere sepolto), il politico (attestato dal suo impegno in prima persona attraverso le opere e gli incarichi, alla deputazione dell’attuale Fidenza e di Senatore del Regno, oltre la composizione dell’Inno “Suona la tromba” che tanti neanche conoscono). E il suo rapporto con il canto: mirato, più che alla ricerca della qualità della voce, sul vero “sentire”.

A seguire la carrellata dei titoli a tema: Stiffelio poi Aroldo, il suo titolo più sfortunato, imperniato sul senso della Verità e sulle regole della famiglia. Un intreccio dal quale Mattioli estrapola e traduce l’atto del pubblico perdono, da parte del pastore protestante eponimo nei confronti dell’adultera moglie Lina, quale gesto di profondo spirito cristiano. Assolutamente rivoluzionario nei confronti dell’ipocrisia della società ottocentesca come di ogni altro tempo. Poi la Trilogia popolare o meglio, come precisa, la Trilogia “sulle donne”. In Rigoletto, un percorso dalla trivialità al sublime entro il rapporto del maschio italiano nei confronti delle donne. Donne-oggetto ovviamente, sia si tratti d’amante che di padre. Ed è così che Gilda, in concreto protagonista dell’opera, è vittima non solo di un Duca dall’autore visto, sotto il personalizzato slogan cartesiano “seduco dunque sono”, come il prototipo dell’italico scopatore seriale, ma anche del padre, possessivo fino allo stremo.

[…] Con il Duca di Mantova, ovvio, Verdi – fa notare Mattioli – realizza un ritratto perfetto dello sciupafemmine da bar, una conquista via l’altra fra l’ammirazione degli amici, anzi dei cortigiani complici e adulatori ma in realtà angosciati: la prossima potrebbe essere la loro moglie, il conte di Ceprano ne sa qualcosa. Quindi punta l'indice dritto ai nostri giorni: la festa del primo atto è una cena elegante ad Arcore, almeno per come ce l’hanno raccontata le cronache giudiziarie degli ultimi anni. E, citando l’incipit della celeberrima Ballata del Duca, «Questa o quella per me pari sono»: in realtà , il Duca non ama le donne perché non le considera persone. Sono corpi, anzi vagine con attaccato un corpo, in nessun caso un cervello o una personalità: meri oggetti, appunto, da aggiungere a un’inesausta contabilità leporellesca, affannosa e rassicurante insieme.

Quindi Il trovatore del quale, ben oltre la trama improbabile e complessa entro un meccanismo di antefatti al quadrato, racconti di racconti e situazioni aperte su prospettive narrative molteplici, l'attento spettatore-scrittore modenese evidenzia l’avveniristica tecnica cinematografica e, assieme, il taglio intellettualistico oltre che l’invenzione. E qui si torna alla centralità femminile, del mezzosoprano, con l’Azucena che finisce rosolata sulla pira (così come, nel Don Carlo, oppositori ed eretici finiranno rispettivamente grigliati e flambé). E Traviata, santa e puttana. Un’opera-mito, anzi un mito all’opera, fiasco relativo alla prima assoluta veneziana del 1853 ma opera sulla quale Verdi mai ebbe incertezze stando a quanto da lui scritto il 23 marzo 1854 all’amico Cesare Vigna. E da Mattioli: Non è solo sicuro dell’aspetto musicale; sa che ha infilato il suo bisturi nella carne viva della società del suo tempo, è andato al cuore del perbenismo borghese, ha colpito e affondato, e per sempre, l’ipocrisia di un mondo dove, a tutti i livelli, la prostituzione dilaga ma è vietato parlarne nei salotti. Almeno ufficialmente.

E qui inevitabile, alla presentazione dal vivo, la critica alle tante Violette troppo aristocratiche delle brutte regie recenti, inserite in contesto così lontano dal démi-monde al quale invece l’originale Marie Duplessis e a seguire la letteraria Marguerite Gautier di Dumas figlio appartennero.

La questione della censura, della cronaca vera e di quanto ancora oggi sfugga del tutto il peso politico – e addirittura la funzione di ago nella svolta del pensiero politico verdiano – affiora invece con Un ballo in maschera, polarizzato sul regicidio di Gustavo III in Svezia avvenuto realmente e pertanto spinto in altri luoghi e altre epoche. A farcelo capire? Il fatto che, per la prima volta, Verdi non simpatizza per i cospiratori (Sam E Tom), bensì per il governatore Riccardo: Ma chi è dunque Riccardo? A me sembra – si precisa nel capitolo numero nove – che qui si presenti un’altra tipica figura italiana, quella del vitellone di provincia, del vecchio giovane mai cresciuto che passa ancora e sempre le sue giornate al bar a fare scherzi con gli amici. Governatore di un Paese dove evidentemente c’è pochissimo da governare, Riccardo passa metà opera a cazzeggiare, in una specie di prolungata adolescenza fatta di sfottò, burle, travestimenti. Poi scopre l’amore e diventa uomo, paradossalmente morendo assassinato in quella cornice ormai per lui vuota – il ballo in maschera – dove prima pensava solo a morire dal ridere.

E ancora: La forza del destino, per i ben noti effetti jettatori ribattezzata “Potenza del Fato” o semplicemente l’opera per San Pietroburgo, plot in cui, come ci dice Mattioli, non manca niente, stupefacente. Un ritratto dell’Italia che fu. Quindi il Don Carlo, straordinario affresco sul rapporto padri-figli e Stato-Chiesa con tanto di questione romana sullo sfondo. E poi c’è Aida, opera-ballo e dunque sorta di versione cisalpina del francese grand-opéra che oggi puntualmente torna con il suo in palcoscenico con il suo l’Egitto plastificato fatalmente assimilandosi – e Mattioli se ne chiede fortemente il senso - alle attrazioni faraoniche di Las Vegas, Disneyland, Gardland. Il tutto paragonando Radamès al bravo ragazzo di buona famiglia che commette l’imperdonabile errore di innamorarsi della colf immigrata e vuole addirittura sposarla. Im-pen-sa-bi-le.

E mentre con l’Otello qui si evidenziano le distanze tra la fonte shakespeariana, il librettista Boito e il vero drammaturgo Verdi, va alla prima, grande Commedia lirica della modernità

Falstaff il compito di svelare il miracolo della vecchia quercia che continua a gettare fronde.

Più che un riso, un sorriso e un congedo: dall’arte, dal mondo e dalla vita. Con quel suo impareggiabile concertato finale a mo’ di fuga che ci svela come e quanto "tutto nel mondo è burla". Nel mondo, appunto, ma non nella lirica – e con noi concorda l'autore – in quanto fiction più vera della realtà.

Infine, dai temi e per gli italiani di sempre, l’auspicio di tirar fuori Verdi – icona e non mummia – dalla nicchia, risvegliandolo nelle nostre coscienze e smontandone l’attuale visione catacombale. Fino a restituirgli il posto che gli compete, con tutto l’orgoglio di una percezione culturale e sociale di spiccata e ancor viva forza identitaria. In che modo? Parlando di noi, parlando a noi. E riproponendolo non dando risposte, ma solleticando domande attraverso visioni, come ribadisce Alberto Mattioli a chiusura dell'incontro salernitano - «più choc e meno chic». Un Verdi in pratica ben oltre i paletti di quel mito che ha voluto vederlo come colonna sonora del Risorgimento, creato a Italia unita: forse per consolarsi di averla unita così male.

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