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  • Paola De Simone

Una voce lirica unica e virtuosa, tecnicamente d'argento vivo quanto, per timbro, pura come il cristallo. Additata dai contemporanei per l'intera prima metà del Novecento come la più alta della lirica mondiale. A parlare del soprano lirico-leggero Antonietta Meneghel, in arte Toti Dal Monte (nella foto d'apertura), saranno i familiari e alcuni esperti, oggi giovedì 18 maggio alle ore 17.00 nella Sala Rari della Biblioteca Nazionale di Napoli a Palazzo Reale, in apertura della XVI stagione concertistica (sotto allegata in pdf) promossa dell'Associazione Ex Allievi del Conservatorio di Musica "S. Pietro a Majella", con la direzione artistica del maestro Elio Lupi.

Per il consueto ciclo "L'incontro con le grandi famiglie della Musica", Antonella e Massimo Rinaldi, nipoti della straordinaria Toti Dal Monte, ne ricorderanno la personalità umana e artistica insieme a Francesco Mercurio, Direttore della Biblioteca Nazionale di Napoli, a Vincenzo De Gregorio, Presidente Onorario degli Ex Allievi e Preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra in Vaticano, a Patrizia Miscione, Direttrice della Biblioteca Cornelia di Roma, a Paola De Simone, giornalista e musicologa, a Lorenzo Tozzi, critico musicale del quotidiano Il Tempo di Roma. A complemento dell'incontro, un recital lirico con il soprano Nunzia De Falco, accompagnata al pianoforte da Francesco Pareti, attualmente titolare della Cattedra di Pianoforte al San Pietro a Majella.

Durante l'incontro, dunque, approfondimenti biografici e artistici, curiosità, aneddoti sulla voce storica veneta formatasi con Barbara Marchisio e, a cura di chi scrive, i rapporti della grande cantante con il palcoscenico del Teatro San Carlo, dal debutto partenopeo avvenuto nell'aprile del 1929 con la sua opera prediletta, Lucia di Lammermoor di Donizetti al fianco dell'Edgardo interpretato dal marito Enzo De Muro Lo Manto, sposato poco prima con "deliranti feste" in Australia, alle successive, non numerose ma fondamentali presenze che, oltre alla ripresa della "Lucia" nel marzo del 1933, la videro applaudita protagonista nel 1934 con la Linda di Chamonix, sempre di Donizetti, nel gennaio del 1936 addirittura in due diversi titoli nel giro di pochi giorni (il Barbiere di Siviglia e Traviata) con il debutto a Napoli per l'Italia nel ruolo di Violetta dinanzi alle reali presenze della principessa di Piemonte e della duchessa d'Aosta. Quindi, nel 1937, sarebbe tornata con la Lodoletta di Mascagni e, ancora, nei giorni della Grande Guerra con il Puccini di Bohème. Si riportano, dal quotidiano Il Mattino, alcuni stralci sulla sua prima Lucia napoletana (nella foto) e sulla Traviata consultati grazie alla sempre cortese disponibilità della Biblioteca della Fondazione Banco di Napoli.

In data 11 aprile 1929 il recensore scriveva: "La riproduzione di iersera della vecchia e canora opera che parla al nostro cuore […] attraverso le sue pagine eterne, aveva un’attrattiva singolare: la presentazione al pubblico napoletano di Toti dal Monte. Ed invero la celeberrima cantante ha richiamato iersera un pubblico non soltanto enormemente numeroso ma eccezionalmente competente: quanta gente che da anni non frequentava più il teatro lirico era presente, iersera, attratta dalla fama della cantante veneta! Toti dal Monte ha esercitato fin dal prim’atto un deciso ascendente sull’uditorio che, conquiso dalla purezza della sua voce l’ha acclamata con applausi sempre più fervidi trasformatisi in una ovazione scrosciante, piena, travolgente che ha coronato, al terz’atto la scena della follia dopo la quale l’artista elettissima dovette presentarsi alla ribalta chissà quante volte: certamente una quindicina.

Un tale entusiasmo è dovuto non soltanto alla purezza cristallina della voce di Toti dal Monte,

quanto alla maestra impareggiabile del bel canto: un canto dalla perfezione assoluta che, non trascurando mai l’espressione, raggiunge il virtuosismo nel suo limite estetico. Ché la Toti del Monte ha virtù rarissime nei soprani leggieri: quella di vivere drammaticamente la sua parte. La sua dizione è perfetta tutte le parole sono dette con la giusta espressione e ciascuna ha il suo rilievo drammatico e canoro. La voce di una irridescente trasparenza ma non certo voluminosa né molto estesa, riesce ad esprimere l’arte attraverso il dramma attraverso l’arte della cantante e la sensibilità dell’attrice; ma, nei brani di puro virtuosismo come nella libera cadenza del terz’atto riesce ad elettrizzarci e a conciliarci col barocchismo delle volatine, dei trilli e dei gorgheggi antidrammaticamente accademici. La Toti dal Monte è tale artista da rendere quella fantasia poetica e quella lirica profondità espressiva che Donizetti concepì scrivendo la scena. Peccato che a quelle pagine faccia seguito una barocca cadenza e che il pubblico vada in visibilio – auspice la maestria dell’interprete – precisamente per quella cadenza. La Toti dal Monte raggiunge la purezza delle sue portentose possibilità proprio in questo terz’atto della Lucia, là dove il soprano leggero ha modo di mostrare le preziosità assolutamente eccezionali del suo virtuosismo. Accorrano i napoletani ad ascoltare la cantante e attendano il terz’atto; l’entusiasmo onde iersera fu travolto tutto il pubblico, si rinnoverà tal quale. Più intenso non diciamo perché non lo crediamo possibile".

Il 10 gennaio 1936 se ne commentava invece il debutto italiano nella Traviata di Verdi: "Ieri sera, al San Carlo, per la prima volta in Italia, la signora Toti Dal Monte si è presentata quale interprete della Traviata. Avvenimento artistico per il quale l’attesa era piena d’interesse e d’interrogativi. E’ noto quale arduo problema costituisca l’interpretazione del famoso personaggio verdiano; né sembrava a molti che le conosciute ed apprezzate qualità artistiche di Toti Dal Monte fossero le più indicate per il nuovo, difficile cimento. I dubbiosi hanno avuto modo di ricredersi. La Toti Dal Monte ha creato un personaggio esclusivamente e squisitamente di carattere musicale. Cosa che ha grande importanza specialmente in un’artista come lei che vantava, in prevalenza, fama di virtuosa e che, invece, in questa sua nuova interpretazione, ha saputo mettere in valore qualità di elevata spiritualità musicale e di profondo ingegno artistico. Lo sappiamo: la sua figura non si presta a dare una valorizzazione visiva della tormentata ed esaurita Violetta; il volume della sua voce, in taluni momenti, non è il più indicato agl’impeti drammatici e passionali. Ma in compenso ella ha qualità canore che le più belle e scultoree figure di cantanti e i soprani di voce più ricca e voluminosa hanno da invidiarle: è una cantatrice che sa cantare e un ingegno artistico che, nella Beozia canora d’oggigiorno, è una vera rarità. Il suo canto, nella Traviata, non è il solito canto, a fronzoli e ghirigori, da soprano leggiero, sia pure celebre. E’ un canto puro. Toti dal Monte, ieri sera, ha dato una solenne lezione di canto che, in questi tempi di magra, nella didattica vocale, andrebbe incisa subito in un grammofono e portata in giro per i Conservatori di musica. E non per il sopracuto, l’agilità e lo svolazzo, ma per le emissioni perfette, calde, emotive, per il fraseggiare legato, le mezze voci potenti e scultoree nella loro delicatezza. Bisogna ascoltare, al secondo atto, come ella sospira in musica il canto Dite alla giovane, quasi la melodia anneghi nella emozione, e con quale tecnica di fiati e di scatti vocali ella riesce a modulare l’Amami Alfredo".

Il Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella, ha conferito alla manifestazione una propria medaglia di rappresentanza.

L'ingresso è libero fino ad esaurimento dei posti disponibili.

MENEGHEL, Antonietta (in arte, Toti Dal Monte). Nacque a Mogliano Veneto presso Treviso il 27 giugno 1893, da Amilcare e da Maria Zacchello, maestri elementari. La Meneghel – che perse la mamma a sette anni – visse sempre nel culto della figura paterna: figlio di tessitori, Amilcare riuscì non solo a diventare insegnante elementare, ma anche maestro di musica (fu nominato direttore della banda a Mogliano Veneto), e infuse la passione per il canto alla figlia, che a cinque anni poteva contare sui primi rudimenti musicali.

Risposatosi dopo una breve vedovanza, Amilcare ebbe altri tre figli (due femmine e un maschio) oltre

alla Meneghel e a un maschio avuti dalla prima moglie. Il percorso musicale di Toti Dal Monte iniziò ufficialmente con cinque anni di pianoforte al Conservatorio di Venezia sotto la guida di F. Giarda, quindi di G.

Tagliapietra. Una tendinite alla mano, alla vigilia degli esami del sesto corso, la obbligò a una battuta

d’arresto. La forzata lontananza dalla tastiera la indusse a coltivare il primo amore, ovvero lo strumento voce;

nel 1911 il padre la portò a fare un’audizione dal contralto Barbara Marchisio. Prossima agli ottant’anni ma ancora attivissima come didatta, la Marchisio rappresentava uno degli ultimi miti viventi del bel canto ottocentesco: insieme con la sorella Carlotta, soprano, era stata una delle interpreti predilette da Rossini e la sua villa sulle rive del Brenta era meta di pellegrinaggio da parte di ammiratori e aspiranti cantanti. L’audizione ebbe esito favorevole: la voce appariva piccola e «corta» (mentre proprio la limpidezza del registro sopracuto sarebbe poi diventata una peculiarità della Meneghel), ma la Marchisio restò colpita dalla capacità, evidentemente innata, di dar colore ed espressione a ogni frase. Per le lezioni non volle alcun compenso, richiedendo però una dedizione assoluta, che non lasciava più spazio al pianoforte.

Iniziò così l’edificazione di una tecnica vocale tra le più provette e inattaccabili del Novecento; anche se,

a posteriori, furono in molti a ritenere che in nome della propria forma mentis belcantistica avesse

artatamente trasformato la sua allieva in un soprano leggero di coloratura, anziché assecondarne i mezzi

naturali, più da soprano lirico. Sta di fatto che, nonostante la tecnica si fosse modellata sui parametri del

«leggero», i primissimi passi di Toti Dal Monte furono proprio nella direzione del «lirico»: prima il debutto nella

piccola ma non trascurabile parte di Biancofiore della Francesca da Rimini di R. Zandonai (Milano,

teatro alla Scala, 22 febbr. 1916, accanto a Rosa Raisa e A. Pertile, direttore G. Marinuzzi), poi (un mese

dopo, sempre alla Scala) il ruolo di Lola, nominalmente scritto per mezzosoprano, in una Cavalleria

rusticana diretta dallo stesso P. Mascagni. Dall’anno seguente iniziò a mettere in repertorio vari ruoli di

soprano leggero, o almeno tradizionalmente eseguiti come tali, facendone subito autentici cavalli di

battaglia: Norina del Don Pasquale di G. Donizetti e Gilda del Rigoletto di G. Verdi (1917), Amina

della Sonnambula di V. Bellini (1919), Rosina del Barbiere di Siviglia di Rossini (1920), la protagonista

della Lucia di Lammermoor di Donizetti (1923). Nel 1918 l’esordio in Pagliacci, Lodoletta e Madama

Butterfly sembrò volgere nuovamente l’ago della bilancia in direzione del soprano lirico, anche perché

Nedda dell’opera di R. Leoncavallo fu per lei solo una meteora, ma le due eroine di Mascagni e Puccini

rappresentarono i personaggi con cui più entrò in empatia. Tuttavia furono in molti a sconsigliarla di

seguire questa strada: e se Lodoletta rimase nel suo repertorio della, Butterfly fu prontamente messa da

parte. Vi rientrò solo vent’anni dopo, diventando il titolo con cui s’identificò la fase finale della sua

carriera. Dunque una carriera che, come testimonia l’esordio avvenuto direttamente sul palcoscenico

della Scala, prese il volo quasi subito, trovando l’apogeo nel ventennio compreso tra le due guerre. A

sancire il lancio definitivo fu la collaborazione con Toscanini, iniziata nel 1919 con una Nona Sinfonia di

Beethoven a Torino, ma istituzionalizzata dal 14 genn. 1922, quando affrontò alla Scala, insieme con C.

Galeffi e G. Lauri Volpi, la prima di dodici recite destinate a segnare una svolta nella storia interpretativa

del Rigoletto. Riproposto anche negli anni seguenti, lo spettacolo cambiò la percezione del capolavoro

verdiano nel modo più semplice e meno scontato: eseguendolo come l’autore lo aveva scritto. Furono

reintrodotti alcuni passi solitamente espunti e, rinunciando a cadenze e puntature di tradizione (per

quanto riguarda il soprano, Caro nome fu orbato del mi bemolle conclusivo), la lettera dello spartito

venne rigorosamente rispettata. Non tutti i cantanti trassero giovamento da una simile operazione: per

Lauri Volpi l’esperienza si concluse con una malattia, secondo molti diplomatica, dopo la terza recita, ma

per la Meneghel si trattò di un trionfo, replicato alla Scala l’anno dopo con Lucia di Lammermoor, sempre sotto

la guida di Toscanini. Nel 1928 sposò a Sydney il tenore Vincenzo De Muro Lomanto, con cui ebbe

l’unica figlia Maria, apprezzata attrice di prosa (Marina Dolfin). Il secondo dopoguerra coincise con un

progressivo, ma accortamente gestito, affievolimento delle risorse della Meneghel, che preferì accantonare i

ruoli di soprano leggero (con l’eccezione di Rosina del Barbiere, mantenuta in repertorio fino all’ultimo),

troppo dispendiosi in termini di fiato ed estensione, in favore della sua antica vocazione di soprano lirico.

Tornò dunque a Butterfly e si accostò a Manon di Massenet, Bohème di Puccini e Traviata di Verdi. Per

quest’ultima si avvalse, sul piano scenico, dei consigli di E. Zacconi. Nel 1937, cedendo alle

sollecitazioni di R. Simoni, prese parte a una sua messinscena delle Baruffe chiozzotte di C. Goldoni (a

Venezia, nella cornice di campo S. Cosma). Sembrò un mero intermezzo all’interno di un’attività canora

ancora molto intensa; ma quando, undici anni dopo, C. Baseggio le chiese di entrare nella sua compagnia

goldoniana, l’entusiasmo con cui si gettò nell’impresa coincise con il definitivo distacco dalle scene

operistiche. L’esperienza, che escluse ogni altro impegno, durò dal 1948 al 1950. Poi il richiamo del

canto tornò a farsi sentire e tra il 1950 e il 1951 intraprese un lungo giro di concerti di arie antiche,

accompagnata dalla clavicembalista Egida Giordani Sartori, con cui nacque un sodalizio, umano e

professionale, che durò fino alla morte. Da ricordare infine, per quanto meno rilevanti, le occasionali

incursioni nel cinema, che iniziarono nel 1939 con Il carnevale di Venezia (regia di G. Gentilomo) e

proseguirono nei decenni successivi, fino a un breve «cammeo» in Anonimo veneziano di E. M. Salerno

(1970). A ricomporre i tasselli di una carriera tanto magmatica giunse, dopo il ritiro dalle scene,

l’autobiografia della Meneghel (Toti Dal Monte, Una voce dal mondo, Milano 1962, riedizione postuma

ampliata, ibid. 1985), interessante – nonostante le molte imprecisioni pro domo sua – per la descrizione

della cornice in cui operò. Vi troviamo gli incontri con D’Annunzio, Pio XII (che le espresse rammarico

per la rinuncia al canto in favore del teatro goldoniano) e i dittatori di quei decenni, da Stalin ad A. de

Oliveira Salazar, da Hitler (appassionato sostenitore, in privato, dei benefici effetti della vocalità italiana)

a Mussolini. Il volume permette anche di conoscere una Meneghel che dà un contributo alla liberazione, dando

alloggio a partigiani fuggiaschi e meritandosi un’onorificenza da P. Nenni e S. Pertini. Morì il 26

gennaio 1975 a Pieve di Soligo, ove si trova un museo a lei dedicato.

Questa sera ripercorreremo la parabola artistica e umana del grande soprano trevigiano attraverso i

racconti e i ricordi del nipote Massimo Rinaldi. (fonte: Dizionario Biografico Treccani).

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