Raramente un programma da concerto individua e reca in sé una dorsale progettuale così ben costruita nelle premesse quanto poi effettivamente realizzata attraverso le concrete peculiarità degli esiti performativi partendo da alcune, precise chiavi di collegamento quali, nel caso specifico ascoltato in Stagione e in data unica al Teatro San Carlo nella giornata delle donne, i sogni, i segreti, le visioni, l'amicizia. Il tutto, originalmente pensato entro un organico dalla geometria variabile.
Ad averlo proposto con successo, quattro importanti musicisti italiani - il violinista Gabriele Pieranunzi, violino di spalla dell'Orchestra del Lirico napoletano, il pianista Maurizio Baglini e la violoncellista Silvia Chiesa (questi ultimi due uniti nella vita come nell'arte) più il soprano Cinzia Forte (nelle foto) - legati da una bella amicizia ma anche, e innanzitutto, da una raffinatissima quanto sorprendente (non trattandosi di una formazione storica o stabile, come molte solo sulla carta) intesa cameristica. Valenza per nulla scontata e per giunta osservata in tutte le angolazioni possibili, derivate dalla progressiva e diversa combinazione fra gli strumenti in campo e la voce, fino all'unione, ma solo nell'ultima romanza dell'ultimo brano, del gruppo al completo.
L'itinerario iniziava emblematicamente con un brevissimo saggio d'amicizia, ossia l'Intermezzo di Schumann tratto dalla Sonata F.A.E. (acronimo delle note in sequenza Fa, La e Mi, cardine tematico dell'intero lavoro oltre che, in via ipotetica, del motto Frei aber Einsam, libero ma solo), singolare composizione per violino e pianoforte del 1853 scritta da tre diversi compositori (Albert Dietrich, appunto Schumann e Johannes Brahms) come omaggio-sorpresa all'amico comune e grande talento violinistico Joseph Joachim. Pagina emblematica, in realtà, della stessa linea interpretativa in ascolto stando a quanto estratto già nelle prime battute e in superbo accordo dal violinista Gabriele Pieranunzi e dal pianista Maurizio Baglini, ricercando le mezzetinte più preziose, esattamente come con taglio al platino sarebbero state di lì a seguire poste in luce, accanto alle due donne compagne del raffinatissimo e non facile viaggio, le insospettabili e visionarie suggestioni degli altri brani in programma. Della Sonata n. 1 in la minore op. 105 sempre di Schumann si riscopriva infatti, attraverso un'esecuzione violinistica quasi ad occhi chiusi e un pianismo dalle bellissime sonorità perlacee, una nuova retorica interna, non riletta con tipica foga romantica tra i soliti attacchi veloci e impulsivi slanci melodici, bensì indagata con una cura quasi sospesa e in trasparenza attraverso ogni dettaglio, metricamente dilatata fino a spingere all'estremo - con bravura certamente non da tutti - intonazione e tenuta tecnica, con relativo compiacimento dell'estensione - lo stesso Baglini, nell'illustrare le ragioni del progetto, ha spiegato al pubblico la particolarissima scelta di tempi secondo le indicazioni metronomiche originali - quanto, sul piano delle dinamiche, in sfida al limite del pianissimo e del triplo piano. Una prospettiva che parimenti ha rimodulato il senso e i tesi equilibri nel Trio "degli Spettri" di Beethoven, opera da camera fra le più celebri con la quale ai due musicisti in campo veniva ad aggiungersi Silvia Chiesa, violoncellista di grande sapienza e maturità musicale apprezzata nell'assoluta coesione di un insieme tarato a meraviglia ai fini di una disamina ricca di idee, di incastri serrati, di tinte impalpabili.
Senza intervallo, infine, il passaggio su una raccolta di rarissimo ascolto, le Sette Romanze op. 127 per soprano e strumenti composte in tempi a noi ben più vicini (nel 1967) da Šostakovič sulle poesie del poeta e drammaturgo Alexandr Blok, massimo esponente dell'era d'argento russa. Una silloge di drammaticità spettrale, tetra, dolente e segreta, quasi uno studio sull'espressione canora e sulle impervie dosature timbriche di volta in volta miscelate in un insieme differente e dunque assai utile a testare l'ottima prova di tutti gli strumentisti in gioco accanto a quanto ottimamente gestito dal soprano Cinzia Forte, nella dizione in lingua originale russa come nei colori e nei significati, in bilico fra l'autenticità popolare degli accenti, canto pieno e la modernità del declamato. Una gamma multiforme che dalla nenia delicata sciolta in apertura con la "Canzone di Ofelia" unitamente al solo violoncello, quasi una seconda voce, si è inarcata improvvisa nei vigorosi salti all'acuto in "Gamajun, uccello profeta", immagine con pianoforte ispirata a un dipinto di Viktor Vasnetsov riproducendone, intatto, il mix di realismo, magia e simbolo. Dolce e straniata, a un passo dal silenzio, a seguire, "Eravamo insieme ...", una surreale ninna nanna tra voce e archetto mirabilmente intonata da Pieranunzi sugli intervalli di sesta lungo il filo dei ricordi di un amore avvolto nell'onda della notte, in riproduzione onomatopeica proprio durante il canto di un violino, fra il segreto sorriso di una donna e il bacio chiesto nel cuore dai suoni di quell'arco. Poi, misteriosa è la nebbia rossastra che avvolge Pietroburgo con "La città dorme", uno specchio in cui s'intersecano il paesaggio naturale e quello dell'anima entro un triplice piano sonoro (voce con pianoforte e violoncello) le cui linee mai si incontrano. E ancora altre, diverse atmosfere scolpite dagli interpreti con pari forza quanto con cesello sottile, attraversando con irruenza i versi della "Tempesta" con violino e pianoforte in omofonia e accenti assai vicini allo Šostakovič del Secondo Concerto, quindi i "Segni segreti" per un legame trasfigurato e oscuro tra voce, violino e violoncello, Infine, il quartetto per la prima e unica volta al completo nella vertiginosa "Musica", una domanda sospesa sull'umana esistenza e al confine dell'inesprimibile dove, finendo le parole, non possono che subentrare i suoni.
Si vieta la riproduzione dell'articolo e di ogni altra sua parte