Al Teatro San Carlo è da non perdere il magico Sogno di mezza estate di Shakespeare-Mendelssohn firmato dal coreografo Paul Chalmer e danzato a meraviglia dalla Compagnia di Balletto del Lirico di Napoli
Amori, nebbie oniriche, scambi e incantesimi intrecciati in Terra d'Albione nella notte magica di San Giovanni e, qui a Napoli, portato in danza con arte sublime stando agli esiti ben serrati e cesellati nell'arco di circa due ore fra la labirintica fonte drammaturgica shakespeariana e la meravigliosa rilettura neoclassica consegnata in queste sere al Teatro San Carlo entro una sinergia rara fra suggestioni sceniche, tecniche e linee coreutiche adamantine, stile superbo e plasticità pantomimica.
Spettacolo vincente - eccezion fatta giusto per la parte vocale dal vivo, pur lodevole nelle intenzioni, ma ancora tutta da sistemare nelle parti "a solo" per fiato, ritmo e intonazione, un po' come nel caso dello scorso Pulcinella di Stravinskij - è infatti il mendelssohniano Sogno di una notte di mezza estate, il balletto nato dieci anni fa per l'Opera di Roma per il tandem Menegatti-Fracci a firma del super (quanto a sensibilità e preparazione) coreografo canadese Paul Chalmer ma sostanzialmente riformulato nell'occasione per la Compagnia di Balletto del Lirico di Napoli diretta da Giuseppe Picone. Ne restano ancora due recite - oggi alle ore 17 e mercoledì 23 ottobre, alle ore 18 - che si consiglia vivamente di non perdere. E ne spieghiamo subito il perché.
Innanzitutto per l'incanto di una grande scena dipinta à la manière delle rovine e capricci di Antonio Joli secondo la più alta tradizione pittorica partenopea del migliore teatro storico che si rispetti, con scalinata praticabile a colonnine, realizzata con mano felicissima dai Laboratori interni alla Fondazione capitanati dal responsabile degli allestimenti Pasqualino Marino. Quindi i costumi disegnati da Elena Mannini, delicatamente raffinati e in sintonia perfetta sia con le trasparenze di un mondo orfico-silvano, sia con i fasti fiabeschi del più sontuoso cerimoniale di corte elisabettiano. Il tutto a sfondo della prova ancora una volta sorprendente per qualità e bellezza messa a segno, oltre le prevedibili prestazioni dei rinomati solisti ospiti, dai primi ballerini, solisti e tersicorei della Compagnia sancarliana. Un Corpo di Ballo rinnovato e cresciuto al punto da costituire al momento, e lo ribadiamo ancora una volta, per coesione e affidabilità uno dei motori artistici - senza ombra di dubbio - trainanti dell'intera impresa teatrale. A dimostrarlo, già solo quanto rilevabile nell'occasione grazie all'esatta disposizione e tornitura dei ruoli rispettivamente assegnati. Partiamo dunque citando con lode i loro notevolissimi nomi, iniziando da una coppia di eccellenza: Alessandro Staiano, saldo, concentratissimo, apollineo e ancor più poetico di sempre nel dar forma a Teseo; al suo fianco, una limpida Anna Chiara Amirante, Ippolita dal fascino statuario, magnifica per punte, eleganza dei giri, perfezione delle linee. A seguire, le due coppie giocate a incastro e cromaticamente differenziate in verde e rosso pastello, formate dalla dolcissima Claudia d'Antonio (Elena) con l'atletico Ertugrel Gjoni (Demetrio) e da una deliziosa quanto vezzosa Luisa Ieluzzi (Ermia) al fianco dell'assai talentuoso Stanislao Capissi per Lisandro. Fenomenali, inoltre, Carlo De Martino per Paride (l'unico a tener testa agevolmente allo stacco di tempo velocissimo nel divertissement del pomo d'oro) e Salvatore Manzo, Puck dionisiaco e con l'argento vivo nel sangue. E ancora, di fisicità abile e intensa il Bottom con testa d'asino interpretato dal primo ballerino Edmondo Tucci, così come esilarante e perfetta la performance in caricatura offerta in coda di carriera da Fabio Gison nel cammeo comico. In sintesi, tutti, compresi gli altri elementi della Compagnia tra fate, corte e artigiani, in assoluta empatia con il prezioso lessico coreografico di Chalmer: linguaggio per nulla facile, il suo, forte della migliore tradizione accademica, fitto di passi complessi e di prese azzardate (un paio salvate infatti per miracolo), di grande forza e finezza neoclassica, di formidabile gestualità narrativa, attenta alla gestione delle masse (incantevoli la disposizione in circolo con relative dinamiche per gli allievi "alati" della Scuola di Ballo del San Carlo) e intelligentemente fedele nel tradurre in danza il potenziale attoriale interno ad ogni singola intenzione o parte shakespeariana. Per i personaggi di primo piano c'erano poi, con il suo stile morbido e nobilmente agée, la Titania di Maia Makhadeli, figlia d'arte georgiana in vetta al Dutch National Ballet, quindi l'ottimo Vito Mazzeo per un Oberon particolarmente bello e prestante.
Infine la musica, con il Mendelssohn del Sogno e di altre sue celebri pagine sinfoniche, ben governata con grinta ritmica e concentrazione timbrico-dinamica sul podio dall'oboista e direttore Pietro Borgonovo. Fra le punte di diamante in buca, il primo flauto Bernard Labiausse, il primo oboe Hernan Garreffa, il primo corno Ricardo Serrano (gli si perdona ampiamente la défaillance sulla ripresa di uno dei suoi temi più intensi a fronte di un melos bello come pochi), violoncelli e contrabbassi. Completavano la parte sonora, il Coro di Voci bianche della Fondazione diretto da Stefania Rinaldi accanto alle voci soliste del soprano Paola Francesca Natale e del mezzosoprano Miriam Artiaco.
(Foto di Francesco Squeglia)
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