In una settimana da vero capogiro musicale a Napoli, divisa tra i fenomeni mondiali Douglas, Bartoli e Uchida, c’è da rendere onore e merito all’Associazione Alessandro Scarlatti che, a incastro con i primi due bellissimi regali ricevuti dal San Carlo, è riuscita a portare per la prima volta su un palcoscenico partenopeo la massima pianista giapponese celebre per le sue interpretazioni assolute del repertorio classico-romantico, in un Teatro Sannazaro giustamente sold out e in recital nell’ambito della stagione concertistica parallela al glorioso centenario.
Dunque, primo e altissimo piano su Mitsuko Uchida (nelle foto), oggi settant’anni esatti e carriera impressionante, con programma monografico interamente dedicato a Schubert e, nello specifico, a un tripartito tracciato sonatistico ideale per rappresentarne l’acume singolare dei termini tecnico-analitici, timbrico-ritmici, di stile e di espressione. Tutti parametri calibrati in misura esatta e in gioco entro un pianismo che è al contempo un miracolo di equilibri tra filosofia ed estetica, rito e scienza, cuore e intelligenza, dimensione metafisica e fenomenologia dei suoni.
Il percorso, in totale quasi due ore di ascolto, ha inizio con la Sonata in la minore D. 537, scritta negli anni giovanili: lo stacco dell’Allegro non troppo d’apertura è repentino e ritmicamente tagliente nel risalto al primo tema, ma già nelle note di passaggio in coda conciliato con le torniture rotonde della più intima scrittura schubertiana. Le dinamiche sono incalzanti e il tocco sempre limpido nel raccontare temi e contrasti, percorsi elaborativi, dolcezze e intemperanze del ventenne compositore viennese. Prima di dar vita al secondo movimento, una spettatrice in sala tossisce ripetutamente e l’Uchida, senza scrupolo, la redarguisce con austera simpatia indicandole di zittire quel rumore fastidioso portando alla bocca un fazzoletto. Quindi si riconcentra e ritaglia l’Allegretto quasi andantino centrale con quella particolarissima modalità in staccato che forgia con tocco prezioso e scandito, così come negli altri tempi del genere, quasi riproducendo la precisione meccanica di un delicato carillon in grado di incantare chi ne ascolta il suono. Rapinoso, invece, l’Allegro vivace di chiusura, efficacemente scolpito fra slanci di luce e sfumati abbandoni. Poi, ancora molti rumori fra palchi e platea (persino la voce di qualcuno dall'altro capo di un telefonino), un'ascoltatrice illuminata chiede silenzio e la protagonista in palcoscenico prontamente le restituisce la cortese attenzione, ringraziandola con voce stentorea.
A seguire, una pagina intensa quanto di raro ascolto, la Sonata in do maggiore D. 840, scritta nel 1825, in soli due tempi e detta "Reliquie" perché ritenuta erroneamente la sua ultima composizione. In effetti, vi si scorgono cupi momenti marmorei e tinte raggelanti ma, anche qui, l’interprete ne coglie e scolpisce con grande sapienza la forma e il senso, ulteriormente potenziando quello stesso alternarsi di zone differenti posto in debita evidenza nel precedente movimento finale, fra coriacei affondi e delicati giri di note. Un chiaroscuro che le mani della grande interprete giapponese spingono ancor più avanti nell’Andante successivo, fra sospensioni, tensioni, fervori, silenzi e impennate di fuoco.
In terza battuta e all’apice, la grande vetta toccata con la Sonata in si bemolle maggiore D. 960, composta da Schubert a soli due mesi dalla morte prematura e a coronamento di una triade a sua volta al top di un itinerario che nel genere avrebbe lasciato una ventina fra esempi e frammenti. Evidenziandone l’eredità della prima Scuola di Vienna quanto l’apertura verso lo stile pianistico delle future generazioni, Mitsuko Uchida ne ha indagato con magistrale ricerca del suono e della motricità dinamica le architetture insolitamente ampie e le atmosfere, in bilico fra trasfigurazione e sogno: nella sua rilettura c’è la semplicità lontana dal brillante virtuosismo e c’è una sempre peculiare cifra timbrica, la plasticità del ritmo e lo scatto veloce, l’oscillazione tonale e il lirismo lungamente articolato nel pur prevedibile rispetto del testo schubertiano, ma con esiti inauditi e puntualmente sorprendenti in virtù di una visione pianistica nobilmente lucida quanto sagacemente cinetica, misurata a meraviglia coniugando le molteplici risorse della tastiera (gioco di legato e staccato in primis) e un attento dosaggio del pedale. Ne emergono i primi due temi, l’uno teneramente parlante, l’altro cantabilissimo e, ancora, la plasticità deliziosa dell’Andante sostenuto, il carattere impresso allo Scherzo e la viva pregnanza del Rondò finale.
Omaggio fuori programma più che gradito e perfettamente centrato, al termine, con una dolcemente cristallina Sonata in re minore K. 9 (L. 413) del napoletano Domenico Scarlatti.
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