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  • Paola De Simone

Un Quarto di Beethoven così, dal vivo e almeno pianisticamente parlando, non capita certo di ascoltarlo facilmente e difatti arriva per la sinfonica sul palcoscenico del Teatro San Carlo come uno splendido dono con relativo, meritato successo: raro quanto bello e assoluto nell'equilibrio fra luce e sostanza, calibrato a meraviglia conciliando metri e dinamiche, smalti sgranati in velocità e affondi in velatura interiore, giusta arguzia nel ventaglio d'accenti, scatti e colori, quindi bilanciando tecnica e agogica, rigore e invenzione fra il cuore e la mente. A restituirne con articolazione chiara e pregnante l'esatta tornitura, ben consapevole di uno stile classico maturo nell'op. 58 spinto ai primi dell'Ottocento verso nuovi orizzonti dialettici dall'autore di capolavori coevi quali la Quinta Sinfonia e il Fidelio di prima stesura, è stato il pianista irlandese Barry Douglas (nella foto d'apertura), ospite per la terza volta in concerto al Lirico napoletano dopo aver dato forma quindici anni fa in recital ai Quadri da un'esposizione di Musorgskij, alla Sonata op. 1 di Berg e all'Appassionata di Beethoven, quindi nel 2016 con l'Orchestra della Fondazione al Secondo Concerto di Rachmaninov. Al suo fianco stavolta, e al suo esordio alla guida dell'Orchestra del San Carlo, c'era il giovane e bel talento del francese Julien Masmondet (alla testa della compagine sancarliana nella foto a seguire) che, senz'altro attento a ricercare una più nobile dimensione paritetica e dialogante fra il solista e il Tutti oltre ai pertinenti stacchi metrici (ottimo ad esempio l'attacco del Finale), ha in realtà reso solo più evidenti alcune debolezze di coesione fra le parti, con strumentini concertanti udibili a stento e poca tensione fra gli archi. Di conseguenza, l'intero motore del più interessante fra i cinque Concerti beethoveniani è andato a concentrarsi sul sempre lucidissimo pianismo dell'oggi cinquattottenne (59 anni il prossimo 23 aprile) Barry Douglas, entrato perfettamente nella desueta dimensione concertante per poi trainare praticamente da solo l'intero discorso ben contaminando nella plasticità dei temi, come nei ponti modulanti o di passaggio, l'agile regolarità digitale e una speciale sensibilità cantabile, con primi piani a fuoco nei tre luoghi cadenzali, negli incroci cromatici e nelle perorazioni già in volo verso il sublime della Nona. E ben centrato anche il bis finalmente concesso dopo i lunghi applausi - l'Intermezzo n. 4 op. 116 di Brahms - interpretato con intenzioni di semplicità moderna e senz'altro scelto a liaison con l'op. 58 visto che, il compositore di Amburgo, fu tra i massimi esecutori del Quarto Concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven.

Tutt'altra luce sull'Orchestra del San Carlo e soprattutto ben altri esiti da Julien Masmondet, quindi, con il secondo brano in programma, la Fantasia per orchestra Die Seejungfrau (La Sirenetta) di Alexander Zemlinsky, compositore per lo più passato alla storia per essere stato il maestro di Schönberg, finito praticamente da subito nel cono d'ombra dell'allievo-padre della dodecafonia ma autore di non trascurabile interesse così come attestato proprio dall'ampia pagina in ascolto, ispirata alla celebre fiaba di Hans Christian Andersen e, pertanto, ricca di suggestioni e immagini delle terre e dei mari del Nord. Una pagina che il giovane direttore francese, un po' timido ma ben preparato, conosce a fondo e che difatti, con gesto morbido e raffinato, riproduce distillandone con sapienza i mille effetti attraverso i tre movimenti sinfonico-descrittivi. Ed è così che Masmondet passa dalle cupe sonorità degli abissi agli impasti armonici preziosi dando vita, entro le sponde di un unico flusso tripartito, a scavi e aperture, a gorghi e a impennate improvvise (notevole, in special modo, il tempo centrale per il pregio delle immagini), fra dosaggi sottili in pianissimo e spiccati rilievi dai timbri puri, con prova più che lodevole dei corni (capitanati da Ricardo Serrano), legni chiari (migliore su tutti il primo oboe Hernan Garreffa), arpe, campane tubolari (affidate a Pasquale Bardaro) e archi scuri, con violoncelli condotti da Luca Signorini e contrabbassi da Carmine Laino.

In sintesi, partitura e impressioni da fiaba con la sola eccezione di quell'ultima battuta dalla quale tirar fuori, magari alla prossima volta, una migliore magia.

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