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  • Paola De Simone

L'ultima volta che il grande violinista russo naturalizzato israeliano Maxim Vengerov era stato applaudito al Teatro San Carlo, nell'ottobre di due anni fa in apertura di Stagione concertistica, aveva analogamente condiviso il programma e il palcoscenico con un secondo archetto. In quell'occasione, e come prevedibile applaudito alle stelle, era al fianco di un altro nome di caratura mondiale, quello dell'amico di una vita e di studi, parimenti virtuoso e astro fulgente Vadim Repin (coniuge tra l'altro della magnifica étoile Svetlana Zakharova), in gara e in straordinaria intesa con il Doppio Concerto di Bach (BWV 1043, ciascuno sfoderando tecnica e temperamento da scintille sul rispettivo Stradivari), per poi passare sul podio lasciando il testimone al solo Repin per il Primo Concerto di Bruch e fino a rileggere, in chiusura e sempre alla guida dell'Orchestra della Fondazione, la Sinfonia "Scozzese" di Mendelssohn. Stavolta nella data pomeridiana unica e interamente votata per circa due ore a Mozart (nelle foto di Luciano Romano) con lui c'era, ma solo per la prima delle tre proposte in ascolto, una delle due spalle del Lirico napoletano, Cecilia Laca che, dopo il rinvio del medesimo appuntamento previsto lo scorso anno, è finalmente riuscita ad esibirsi - in abito da fata e mollettina fra i capelli biondi - nell'attesa quanto inedita coppia con Vengerov. Un bel regalo da parte del rinomato solista e in fondo, se per il futuro in replica anche per le altre prime parti della compagine sancarliana, un'ottima idea per stimolare e monitorare sul non facile terreno di un alto confronto le ulteriori risorse qualitative e le diverse potenzialità tecnico-espressive dei singoli professori d'orchestra fuori dalla massa o dai consueti, rispettivi "soli". In verità, non molto c'era da fare nel Concertone K. 190 composto da un Mozart diciassettenne e in manovra d'avvicinamento alla formula per violino orchestra poi messa con la sua solita e repentina genialità a punto e a buon segno nel giro di pochi mesi, nell'unico anno 1775, con i cinque numeri dedicati al genere. Un banco di prova a sé, diciamo, da disegnare comunque con cura e attenzione fra i garbati manierismi dello stile galante e un'estrema semplicità meccanico-espressiva entro un singolare contenitore che ibrida, unendo ai due archetti in tandem paritetico il bel rilievo concertante assegnato al primo oboe (intenso oltre che perfetto come sempre Hernan Garreffa) e al primo violoncello (Pierluigi Sanarica), le soluzioni a mezza via fra un Doppio Concerto, il Concerto grosso e una Sinfonia concertante. Buona in verità, sin dall'Allegro spiritoso iniziale, la complementarietà emersa dal dialogo d'assieme fra i due archetti, appartenenti a mondi interpretativi diversi e lontani, in termini di luce e dunque di suono paragonabili, per temperatura e origine, al sole e alla luna. Ossia, entro il guscio di una serrata comunione d'intenti nella tornitura metrico-ritmica di proposte, risposte, incisi e cadenze, al motore sonoro musicalissimo e in volo oltre la stessa materia di Vengerov corrispondeva, da parte della Laca, la spinta tesa e carica di tecnica oltre le esigenze della stessa forma, con suoni stretti quanto ancorati a corde, crini e legno. In pratica, cosi come confermato nei due movimenti a seguire, una sottile sfida di incontri e contrasti, contenuti e portamenti tra due sfere distinte: anni luce. Sfida coronata dai debiti applausi.

Terminato il Concertone, la spalla sancarliana (in orchestra sostituita nei primi due brani da Daniele Colombo, quindi tornata nella seconda metà della serata in abito scuro e giù al suo posto di sempre, al leggio-guida della compagine per la Sinfonia) è salita in barcaccia mentre il violinista russo, questa volta in qualità di solista e concertatore, ha imbracciato il suo prezioso Stradivari "ex- Kreutzer" del 1727 per dare forma notevolissima al Concerto n. 5, ultimo della serie e per lo più caratterizzato, oltre che dai bellissimi temi ormai già vicini alle prospettive beethoveniane, da un peculiare e tipicamente settecentesco cuore turco nel Finale. Fermo lasciando il taglio limpido e iper-classico di un'architettura ricostruita con chiarezza e piglio espressivo esemplari, il violinista classe 1974 ha rimpolpato pentagrammi e simmetrie rigorose con l'intelligenza e la cantabilità di un eloquio ricco di smalti e dinamiche, colpi d'arco, sfumature e diminuzioni (come nella Ripresa dopo l'episodio alla turca) che hanno garantito tempra, originalità e sostanza sia nelle sortite del "Solo" che nell'efficacissimo afflato d'insieme con il "Tutti" capitanato dal quintetto d'archi Colombo-Weisbrot-Improta-Sanarica-Calzolari.

D'obbligo il bis (la Sarabande dalla Partita n. 2 in re minore di Bach) e relativa pioggia di applausi.

Infine la Sinfonia K. 551 "Jupiter", vetta superba della produzione mozartiana per orchestra e dunque restituita dal "Vengerov direttore" quale summa di quel genere in era Classica, valorizzandone il respiro innanzitutto sinfonico e tirando dritto, pur curandone con puntualità l'ordito contrappuntistico e soprattutto i rilievi dei violini primi, lungo la linea di un più ampio e moderno orizzonte, potenziato nei contrasti metrici e nell'agogica, così come enfatizzato con sguardo già ottocentesco, puntando sulla forza dell'amalgama più che sull'articolazione concertata delle parti in gioco.

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