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Paola De Simone

Grande e singolare Sinfonico, ieri sera al Teatro San Carlo, per una sala non piena come il programma sul più accattivante Novecento, i protagonisti e gli esiti qualitativi avrebbero meritato (unica altra possibilità di recupero, per gli spettatori manchevoli, la pomeridiana di oggi alle ore 18) e, infatti, coronato da intensi e lunghissimi applausi. Applausi andati con il debito entusiasmo a premiare, al termine della prima parte, sia il solista ospite esordiente al Lirico napoletano, il giovane e bravissimo violinista americano Stefan Jackiw interprete dell'op. 35 di Korngold, sia il nostro sempre eccellente Direttore Musicale Juraj Valčuha, alla testa di un'Orchestra della Fondazione in massima forma e, nella seconda metà della serata, estensione da circa 120 elementi nella monumentale quanto dalle vertiginose suggestioni Alpensinfonie di Richard Strauss (foto di Luciano Romano).

Partitura dall'ampio respiro post-romantico, con ampi sprazzi da cinema hollywoodiano ma tecnicamente virtuosa, scritta nel 1945 negli States dall'ebreo moravo di formazione viennese e naturalizzato americano Erich Wolfgang Korngold (autore di 21 colonne sonore dell'epoca di Bette Davis ed Errol Flynn, di musica vocale, orchestrale, da camera, più cinque titoli per il teatro musicale fra i quali svetta Die tote Stadt, ossia La città morta, del 1920), recentemente considerata piuttosto alla moda quanto di segno opposto agli sperimentalismi di metà secolo spinti dalla generazione di Darmstadt. Una pagina nei canonici tre movimenti con relative cadenze, di facile ascolto ma tecnicamente brillante e stilisticamente sincretica, dunque a maggior ragione di non semplicissima lettura dovendo evitare di scivolare in ridondanze filmico-sonore americane d'altra parte già notate dalla critica newyorkese successivamente alla première del 1947, con esecuzione e dedica affidate a Jascha Heifetz, definendolo difatti un Concerto "Hollywoodiano". In parallelo complessa se ne rivela la tenuta stilistica staccata com'è da violino e orchestra su avvolgenti atmosfere orientaleggianti ma, nel terzo tempo, da figurazioni ritmiche stravinskiane, virtuosismi all'acuto e colpi d'arco dopo il respiro da grande Concerto tardo-romantico sfoderato nel movimento lento e, per di più, dominata da una priorità melodica nata dalla curiosa sintesi fra il mondo viennese animato dalle figure che fondarono l'alta Istituzione che a noi oggi è nota come Festival di Salisburgo, ossia il compositore Richard Strauss con il drammaturgo Hugo von Hofmannsthal e il regista Max Reinhardt, accanto al sinfonismo mahleriano, con un pot pourri desunto dalle proprie partiture per il grande schermo (Another Dawn/Aurora del deserto del 1937, Juarez/Il conquistatore del Messico del 1939, Anthony Advers/Avorio nero del 1936, The Prince and the Pauper/Il principe e il povero, del 1937). Con risultati non troppo dissimili dal tiro sinfonico sontuoso e avvincente riscontrabile anche in pellicole a noi più vicine come, ad esempio, Ritorno al futuro.

Ebbene il trentatreenne Jackiw, sempre con estrema puntualità sostenuto dal direttore Valčuha entro le trame di una scrittura serrata per lo più in amalgama con piccoli rilievi concertanti fra il Solo e il Tutti, ha subito conquistato e convinto per il nitore assoluto del suo suono, forte di un'intonazione e di una tecnica impeccabili, di un assoluto controllo delle dinamiche e di una tensione melodica giocata ad arte fra intenzioni espressive, ritmi ed accenti pariteticamente convergenti verso un fraseggio di eleganza e sapienza rare. Nel primo movimento, neanche a dirlo un Moderato nobile, la sua tecnica e il suo melos fra staccato e legato si stagliano su un tappeto orchestrale per lo più d'atmosfera (un mix fra La mer di Debussy e la musica dei primi anni Ottanta per l'extraterrestre E.T.), quindi dando corpo, nella centrale Romance, a un canto in bilico fra il malinconico e l'elegiaco, di pasta prettamente romantica con reminiscenze dal Concerto beethoveniano oltre che, ovviamente, dagli spunti per film dello stesso Korngold. Il finale, spigoloso e spigliato, è giocato su un dialogo rapido e nervoso ma sempre con vaste concessioni alle aperture cinematografiche affidate a legni e ottoni. Tanti, per lui, i consensi al termine, arrivati non solo dal pubblico ma dagli stessi orchestrali sancarliani e dunque presto ripagati da un Largo dalla Sonata n. 3 di Bach dall'equilibrio adamantino.

Se vogliamo ulteriore entusiasmo ha suscitato l'immenso affresco del poema sinfonico straussiano dell'anno 1915 Eine Alpensinfonie op. 64, da Juraj Valčuha fatto emergere dal pianissimo come una gigantesca marea sonora in ascesa verso la massima vetta in apertura a pieno organico, quindi richiuso ad arco, esattamente in linea con il significato profondo di una genesi in fieri dal buio primigenio - stavolta con ciclico ritorno all'oscurità - radicato nell'estetica di Nietzsche e Schopenhauer, dunque scavando ben oltre la tematica apparente del descrittivismo alpino dei paesaggi montani bavaresi intorno alla sua Garmisch. La potenza con cui il giovane Direttore Musicale della Fondazione governa ed esalta le potenzialità dell'Orchestra sancarliana nelle ventidue sezioni ad altissima temperatura e saldatura melodico-armonica è impressionante, fitta di immagini e di emozioni evocanti, fra il mistero delle ombre e il bagliore delle luci, boschi e ruscelli, cascate e temporali, con meravigliosa Spannung al quart'ultimo brano (Gewitter und Sturm. Abstieg, ossia Temporale e discesa) scolpita dalla folgorante spirale fonica azionata da Pasquale Bardaro al grande rullo della macchina del vento (eliofono o eolifono), con tuono su lastra metallica. Il tutto mai perdendo di vista, dal podio, l'obiettivo centrale in Richard Strauss dell'eroismo esistenziale ed artistico, leggibile oltre l'immenso quadro della Natura entro la complessa filigrana di ogni tracciato agogico e polifonico, attraversando tinte e timbri di vario genere per poi tornare al velo sottile, cupo e controllatissimo dell'incipit, sfumato nel finale.

Una sapienza analitica che emerge tanto nell'esatto equilibrio miracolosamente bilanciato lungo un unico orizzonte di tutte le sezioni in campo, quanto nell'accurata sostanza dei singoli interventi entro una compagine dallo spiegamento di numeri sonori oltre misura quali gli otto corni in primis (tutti bravissimi sotto la guida del primo, Ricardo Serrano), le cinque trombe capitanate dall'ottimo Giuseppe Cascone, l'esercito di percussioni di cui si cita il timpanista Andrea Toselli, le arpe delle impeccabili Antonella Valenti e Viviana Desiderio, lo schieramento dei legni con lode ormai di rito al meraviglioso primo oboe Hernan Garreffa, al primo flauto Bernard Labiausse, al primo fagotto Mauro Russo, al primo clarinetto Luca Sartori, appena rientrato dal suo periodo in Scala e, attorno, gli archi guidati dai membri del Quartetto del San Carlo con Pietro Nappi al primo violoncello più Ermanno Calzolari al primo contrabbasso.

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