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  • Paola De Simone

Traviata in replay, da ieri, al Teatro San Carlo: ma, cambiando bacchetta e cast, la ripetizione vale fino a un certo punto.

È infatti appena partito, ma con altri e nuovi esiti, il secondo round dell'assai suggestivo anche se in gran parte monocorde allestimento "sotto la pioggia" affidato al regista e consulente artistico interno, Lorenzo Amato, già visto e recensito lo scorso febbraio, quindi complessivamente in locandina per quasi trenta recite, persino a doppio turno, comprese le generali aperte al pubblico e le alzate di sipario per le scuole fino al prossimo 20 giugno, in totale con ben sette diverse Violette.

Intanto, alla prima di ieri (nelle foto di Francesco Squeglia), il teatro era pieno e, fra gli ospiti d'onore, c'erano eccezionalmente il Governatore Vincenzo De Luca e l'ex Presidente del Consiglio, dal 2013 giudice della Corte costituzionale, Giuliano Amato, padre del regista in organico e in campo.

Scenicamente dunque, al di là di qualche piccolo mutamento per alcuni particolari, restava intatta l'onirica e dolente visione registica resa speciale, oltre che per le scene dipinte a mano di Ezio Frigerio più i pregiati costumi ottocenteschi di Franca Squarciapino, da quelle bellissime lacrime d'argento e d'acqua vera che scorrono per l'intero spettacolo lungo il fondale di vetro in parallelo al drammatico amore della protagonista ritagliata dal librettista Piave sullo spunto della Dame aux camélias di Dumas figlio, quindi scolpita ad arte in musica dal grande Verdi. Un dramma anche sul piano visivo fortemente chiuso in sé e, sin da quella prima, cupa e quasi cinematografica immagine degli uomini di spalle con ombrelli attorno alla salma della giovane donna e cortigiana d'alto bordo, inteso dal regista come attraverso gli occhi, il pianto e l’anima di una vita troppo generosa e parimenti troppo presto giunta al tramonto entro un contesto sociale di sfarzo e festa quanto corrotto, falso e spietato così come leggibile attraverso l'arrogante gestualità corale e l'inquietante presenza degli uomini in maschera sullo sfondo. Meno convincenti, ora come allora, riteniamo invece la scena delle banconote gettate con eccessiva violenza da Alfredo su Violetta (che tra l'altro canta stesa in una posizione impossibile al termine del II Atto) e la sortita della stessa in sedia a rotelle, per poi trascinarsi strisciante sul pavimento all'inizio del III per raggiungere Annina che comodamente riposa sulla dormeuse.

Musicalmente, e per fortuna, decisamente diversi gli esiti rispetto a quanto ascoltato dalla sempre incandescente direzione di Daniel Oren (per quanto a suo tempo e a sorpresa singolarmente contenuta in coerenza con l'intimismo della linea drammaturgica voluta) e le prove parzialmente convincenti per disomogeneità di una front line canora affidata a una Maria Mudryak brava sul piano vocale ma meno sul versante scenico e a un Vincenzo Costanzo veramente troppo acerbo a fronte della solidità del possente baritono Vladimir Stoyanov per Germont padre. Sul podio delle compagini artistiche sancarliane c'era, stavolta, il quarantunenne direttore d'orchestra valenciano Jordi Bernàcer, forte di un bel curriculum alle spalle e dal 2015 Resident Conductor alla San Francisco Opera, più volte ospite dello stesso Lirico napoletano e da sempre distintosi a nostra memoria per le sue letture esemplari in termini di equilibrio, affondi espressivi e nobiltà delle linee dinamico-timbriche. E così ha fatto anche per la Traviata in scena in queste sere: la Sinfonia, staccata in triplo piano, enuncia sin dall'apertura la precisione degli attacchi e la trasparenza nonché il respiro di tutti i dettagli sonori che attraverso il suo gesto avremmo ascoltato di lì a seguire, fra scelte metriche esatte, ampio rispetto dei tempi e fiati necessari ai cantanti, pieno rilievo ai soli in orchestra (bravi ancora una volta il primo oboe Hernarn Garreffa, il primo clarinetto Sisto Lino D'Onofrio ma anche il primo violino di spalla Cecilia Laca e Giuseppe Carotenuto al concertino), notevolissima sensibilità dinamica interna ai crescendo e anche pronta abilità nel riassemblare l'assieme con il Coro come nella stretta dell'Introduzione all'Atto I.

Come prevedibile conoscendone la bellezza e la voce, sin dalle sue prime battute il soprano georgiano Nino Machaidze (formatasi all'Accademia scaligera con maestri del calibro di Luciana Serra per la tecnica, Leyla Gencer e Luis Alva per l’interpretazione più Bruson e la Freni in masterclass, quindi grande Desdemona a Napoli accanto al meraviglioso John Osborn nell'Otello rossiniano in apertura di stagione nel dicembre 2016) ha centrato quello che per stile e sostanza riteniamo abbia voluto mettere a segno in partitura il compositore pensando a una donna di prima forza, elegante, giovane e in grado di cantare con passione. E noi, in tale sede critica, aggiungiamo: non con voce vetrosa, leggera o frivola come in genere si ascolta con le troppo spesso vuote o per lo più di coloratura Violette d'ultima generazione, bensì da lirico drammatico vero e con salde salite all'acuto (un po' inamidate soltanto all'inizio), ottima intonazione, un'emissione possente quanto curata in bel fraseggio tra sfumature molteplici, respiri perfetti e impercettibili, duttilità di accenti, rotondità degli armonici e mezzetinte sussurrate in pianissimo. In più, credibile anche scenicamente: intensa e di grande temperamento nella sua prima grande scena ed aria "È strano!..", valorizzando come mai udito le pause di semicroma nel sillabato "Ah fors'è lui", ben svettando nel re bemolle all'acme del lessema "gioir" e giustamente evitando nella consapevolezza della propria tessitura, oltre che nel rispetto di quanto voluto e scritto da Verdi, il canonico mi bemolle sovracuto ad effetto nella chiusa della cabaletta "Sempre libera degg'io". Preziose inoltre le sue prove in assieme, al fianco di Germont padre ("Pura siccome un angelo") e del suo amato Alfredo ("Parigi, o cara, noi lasceremo") rispettivamente al II e III atto, fino a sfoderare un'intera gamma di tinte ed emozioni, di messe di voce e impennate canore verso il climax carico di forza tragica nella cabaletta "Gran Dio! Morir sì giovane".

Al suo fianco, per motivi di salute annunciati all'ultimo momento, purtroppo non c'era l'atteso Celso Albelo, bensì il tenore Francesco Demuro rivelatosi tuttavia nell'occasione in ottima forma per ritagliare un Alfredo di ardore e timbro giovanili, dunque piuttosto chiaro, diciamo pure rossiniano, ma dal metallo lucido e forgiato ad arte tra note lunghissime e legati per un fraseggio di stile e poesia dal valore assai nobile e quasi antico, per intenderci, di grande scuola. Timido e inquieto nella sua prima scena ed aria "de' miei bollenti spiriti" più cabaletta, poi giocato in bel crescendo romantico fra l'amore, il disprezzo e il ritorno sempre ben calibrando sonorità, proiezioni e passaggi.

Imponente e stentoreo quindi il Giorgio Germont di Fabián Veloz, baritono dall'emissione importante e dalla giusta eloquenza per il ruolo, in special modo apprezzato nei chiaroscuri in tandem nel toccante, altissimo Andantino cantabile con la Machaidze.

A contorno bravi gli altri interpreti fra i quali si citano, almeno, Tonia Langella (Flora), Michela Petrino (Annina), Orlando Polidoro (Gastone) e Roberto Accurso (barone Douphol). Di giusta tempra verdiana il Coro preparato da Marco Faelli e particolarmente appropriata la coreografia "di carattere" firmata da Giancarlo Stiscia per la scena della zingarelle e mattadori realizzata con assoluto rigore dagli artisti di un Corpo di Ballo - oggi diretto da Giuseppe Picone - da ritenersi tra i punti di forza e allo stato attuale di maggiore orgoglio della Fondazione lirica partenopea.

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