Ormai certi di poter sentire dall'Orchestra del Teatro San Carlo folgoranti scavi analitici e preziosi rilievi dinamico-espressivi così come scolpito, ottenuto e confermato negli ultimi tempi sia in ambito concertistico che sul fronte dell'opera dal premiato direttore musicale della Fondazione lirica napoletana, Juraj Valčuha, è impossibile non notare quanto una diversa mano dal podio lasci talvolta emergere dalla medesima compagine, al di là della quantità delle prove e del pensiero musicale in campo, opposti o comunque assai distanti risultati in termini di definizione, sostanza, equilibri e coesione. È quanto emerso dal pur caldamente applaudito ultimo sinfonico (nelle foto di Luciano Romano) che riportava alla testa dell'Orchestra sancarliana il direttore ungherese Henrik Nánási, ospitato per il suo debutto sullo stesso podio cinque anni fa con l'op. 102 di Brahms (solisti, Cecilia Laca e Luca Signorini) unitamente alla Renana di Schumann e, ora, bacchetta prescelta per uno dei massimi Concerti della letteratura per violino e orchestra, l'op. 35 di Čajkovskij, con il virtuoso Sergej Krylov al suo esordio non partenopeo ma sul palcoscenico del Lirico napoletano, abbinato alla Symphonie fantastique op. 14 di Hector Berlioz.
Relativamente alla prima metà del programma, una funzione di mero e contenuto accompagnamento è quanto Nánási ha inteso tracciare nel capolavoro per violino e orchestra di Čajkovskij volendo evidentemente lasciare in assoluto primo piano il violinismo di fuoco del solista Krylov che, da parte sua, ha sfoderato una visione altamente virtuosistica e di tinta originalmente paganiniana per un Concerto romantico del secondo Ottocento russo che è sintesi mirabile, in realtà, di salda logica e piena opulenza emotiva accanto e ben oltre il noto e complesso arsenale di colpi d'arco. Ed è così che Sergej Krylov, sin dall'incipit seguente a un'Introduzione orchestrale che per quanto formattata già lasciava affiorare per via autonoma il bellissimo suono di uno dei migliori elementi della compagine sancarliana, il primo oboe Hernan Garreffa così come a seguire il primo flauto Bernard Labiausse e il primo fagotto Mauro Russo, ha asciugato la scrittura čajkovskijana da ogni eventuale cedimento romantico per esaltarne piuttosto, pur non rinunciando ad ampi scorci di ambrata cantabilità, un violinismo agguerrito e graffiante, giocato come una sfida, metrica e tecnica innanzitutto. Sfida poi al massimo grado, oltre una visione camminata più che dolce e malinconica della toccante Canzonetta, nel volo a velocità mozzafiato preso nell'Allegro vivacissimo in virtù di un'assoluta bravura parimenti andata a liofilizzare la profondità degli affondi sonori e la genuinità degli accenti popolareschi. Pertanto perfettamente in stile e linea, al termine della sua acclamata performance, l'ultimo dei Capricci paganiniani, offerto fra gli entusiasmi del pubblico quale omaggio fuori programma e sempre con le sue personali, abbaglianti scintille virtuosistiche.
Seppure maggiormente spinta verso esiti sonori plastici ed accesi, la resa dell'Orchestra del San Carlo non è sostanzialmente cambiata in termini di tensione analitico-espressiva nella successiva Sinfonia fantastica di Berlioz, come noto, lavoro dalla tellurica vis fonica, ben ricco di ossessioni biografiche e di immagini romantiche estreme, à la Byron. Cinque movimenti che, fra le nebbie dell'oppio ed entro l'alterata vertigine del grande amore di una vita polarizzata intorno all'idea fissa dell'amata traditrice, alimentano nel compositore-protagonista vaghe illusioni e ricordi, idilli bucolici e visioni spettrali. E ancora, misteri e abbandoni, giri di valzer, patibolo e danze macabre, al cupo rintocco finale del Dies irae. Il tutto per esorcizzare e fino a decapitare attraverso un organico di proporzioni mahleriane un amore ritenuto concluso (nella realtà, quello veramente vissuto fra l'autore Berlioz e l'attrice irlandese Harriette Smithson, motore della Fantastica, avrebbe portato a un nuovo incontro e alle nozze), quindi mentalmente rivissuto ricordandone nel primo movimento (Réveries. Passions) la grande forza e la dolcezza ma, anche, la folle gelosia e le lacrime. Poi, la ricerca della cara immagine fra la confusa moltitudine di una festa (Un bal) fra i giri avvolgenti di un valzer e, nel terzo tempo, la raggiunta calma apparente che lo scenario campestre (Scène aux champs) infonde nel cuore dell'amato stravolto, grazie al suono di due zampogne (evocate in dialogo da corno inglese e fagotto), poi soltanto di una, cui risponde in luogo dell'altra il triste presagio di un tuono lontano. E così gli ultimi due grandiosi movimenti, la Marche au supplice e il composito Songe d'une nuit du Sabbat, non sono che la messa in opera del truce piano di vendetta dell'amato abbandonato per offuscare, con cinica rabbia, il ricordo della donna che lo ha tradito. Ne nasce una visione fantastica: l'uomo, folle di dolore, tenta di avvelenarsi con l'oppio ma la dose troppo debole ne altera solo la mente, aprendola ad incubi e alla condanna a morte per averla uccisa, conducendolo al patibolo e al suono, per l'ultima volta, di quell'idea fissa, fino al colpo mortale inferto dal boia con relativo girotondo di creature infernali e di streghe a raccolta al suo funerale. Ebbene, strano a dirsi, ma nessuna visione, mistero né alta tensione da un tale imponente affresco sonoro nell'occasione, bensì un razionale lavoro comunque attento a gestire in misura compiuta e con rigore scientifico d'assieme l'organico, puntando ad esaltarne i blocchi e i volumi più che le dinamiche interne o i timbri specifici, tolti i peculiari tributi torniti a sé dalle citate prime parti eccellenti (ottime anche le due arpe, Antonella Valenti con Viviana Desiderio, Stefano Bartoli al clarinetto piccolo nel tempo Finale e bravo soprattutto il timpanista Franco Cardaropoli, al secondo, per le sfumature di suono in chiusa) cui si è aggiunta la buona risposta degli ottoni e degli archi tutti, questi ultimi saldamente capitanati nelle rispettive sezioni dalla spalla Gabriele Pieranunzi, da Rosa Weisbrot, Luca Improta, Luca Signorini e da Carmine Laino. Valga, ad emblema, la bellissima Marcia al supplizio, risultata più fanfara paesana nello stile coreutico-popolare della Farandole di Bizet, per intenderci, che studiato fuoco di contrasti, fra il cupo incedere terrifico e la brillante eccitazione per un rito solenne quanto necessariamente liberatorio.
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