Sul grande palcoscenico del Teatro San Carlo, con la tela allegorica del Mancinelli e nient'altro alle sue spalle, è solo: in completo sportivo blu, camicia bianca e cravatta. Con il suo violino, la sua ferrea memoria e tre o addirittura sei leggii ma solo per i brani contemporanei più un virtuosismo d'acciaio pronto a tracciare ad arco, e agli estremi, l'impressionante evoluzione di una tecnica strumentale fra il Settecento di Tartini e gli azzardi dell'avanguardia firmata Sciarrino quindi da Berio, passando al termine per i capisaldi ottocenteschi paganiniani. È così che Michael Barenboim (nelle foto di Luciano Romano), figlio dell'immenso pianista Daniel e violinista dall'intensa attività concertistica, compreso il ruolo di spalla nella West-Eastern Divan Orchestra creata dal padre, ha esordito al Lirico napoletano, fra pieni applausi, qualche fuga durante i pezzi più moderni e niente bis.
Il suo percorso d'ascolto ha con sapienza avuto inizio scegliendo la Sonata in sol minore di Giuseppe Tartini nota con il suggestivo titolo in odore di zolfo "Il trillo del diavolo": un primo, fondamentale passo verso le folgoranti prospettive tecnico-espressive tracciate nel pieno Ottocento e verso la modernità da Niccolò Paganini. Per quanto in bilico fra mistero e leggenda, stando al titolo riportato dalla prima edizione del manoscritto giunto in copia non autografa (Sonata di Tartini che i suoi allievi avevano intitolato il trillo del diavolo secondo il sogno fatto dal Maestro, il quale sosteneva di aver visto il diavolo ai piedi del proprio letto nell'atto di eseguire il trillo scritto nel brano finale di questa sonata), l'opera in sol minore ha da sempre vantato comunque ben poco di demoniaco, se non la difficoltà di quell'abbellimento nel tempo di chiusura da eseguire simultaneamente a una melodia di note ribattute alla corda inferiore. Un contesto tecnico-espressivo entro il quale il giovane Barenboim ha con tecnica sempre consapevole e pulitissima razionalmente dosato colpi d'arco. doppie corde e dinamiche a sbalzo, individuando un interessante equilibrio fra gli stili barocco, galante e persino già romantico. A segno, pertanto, un non comune dominio del materiale musicale e una notevole padronanza delle risorse meccaniche più che una vivace tensione comunicativa quali termini portanti del suo peculiare violinismo, così come infatti di lì a breve ribadito con ulteriore chiarezza e lucidità esecutiva nei non facili pezzi posti rispettivamente a chiusura della prima metà del programma e in apertura della seconda, eseguiti non a memoria. I Sei Capricci di Salvatore Sciarrino, scritti nel 1976 con dedica a Salvatore Accardo ed editi dalla Ricordi, rappresentavano intanto un'autentica sfida non solo sul fronte dell'arsenale tecnico di matrice paganiniana, ma in termini di controllo di un suono sottilissimo, affidato agli armonici e dunque ai limiti della non-udibilità. Capricci-studio di volta in volta giocati sull'arpeggio o sul trillo, sulle doppie corde spinte agli estremi di registro o sui ripidi glissandi dal tasto al ponte, sul pizzicato alla sinistra o su serrati cromatismi. Il tutto, in formule fonicamente aforistiche e vetrosissime. I rumori in sala, purtroppo e come al solito, non sono mancati, così come uno starnuto eccessivamente fragoroso e gli applausi incontinenti (e non voluti dall'interprete) più avanti fra un Capriccio e l'altro di Paganini. Il che, su un tessuto sonoro così delicato e rarefatto, ha portato più volte Barenboim a commentare con occhiate e gesti, o persino, nel caso del terzo Capriccio di Sciarrino, a interrompere bruscamente l'esecuzione per andare come un segugio alla ricerca, nell'imbarazzo generale, del fastidioso rumore da lui avvertito dai palchi di prima fila alla sua destra. E sempre non a memoria, ma raddoppiando i tre leggii utilizzati per l'opera dedicata ad Accardo, ha quindi dato forma a un'esecuzione davvero esemplare dell'impervia Sequenza VIII per violino solo di Luciano Berio, dedicata sempre nell'anno 1976 ma ad un altro grande violinista italiano, Carlo Chiarappa. Anche in tal caso, un virtuosismo affilatissimo e "alla corda", sintesi ed emblema di tecniche passate e future, genialmente incernierato su un semplice intervallo di seconda maggiore (la-si) inteso quale cellula-motore di un tessuto tecnico, timbrico, melodico e armonico ad elevatissima quota, messo a fuoco nell'occasione con precisione impressionante. Confermatosi dunque, a nostro avviso, notevole campione per il violinismo contemporaneo, Michael Barenboim ha al termine concluso il suo primo recital per il San Carlo rifocillando le orecchie degli astanti con una rosa di sei dai 24 Capricci paganiniani (i nn. 1, 6, 17, 16, 9 e naturalmente l'ultimo), dunque ribadendo l'essenza di un'Arte che, in lui, è senz'altro riconoscibile nel primato assoluto di una tecnica sfoderata, su ogni altro parametro in gioco, con un controllo infallibile e una consapevolezza rara in ogni dettaglio.
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