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  • Paola De Simone

Oltre quaranta minuti fra applausi, ovazioni e sei bis, folgoranti: ancora un Improvviso di Schubert con l’op. 90 n. 4, un doppio, amatissimo Rameau con Le Rappel des Oiseaux e l'infatti prevedibile versione pianistica de Les Sauvages dall'opéra-ballet Les Indes galantes, due Preludi di Chopin (op. 28 n. 15 e n. 20) più, in coda, una piccola rarità russa, il dolce Valzer n. 2 in mi minore di Aleksandr Griboyedov.

È stato siglato così il trionfale ritorno in recital al Teatro San Carlo di Napoli di uno dei massimi pianisti al mondo, il russo classe 1950 Grigory Sokolov, protagonista assoluto e magnifico interprete di un evento dagli esiti memorabili quanto fra i più alti della Stagione concertistica attualmente in corso e non solo. E, diciamo pure, emblema esatto di quanto si ritiene opportuno portare in palcoscenico nel rispetto della storia e del glorioso prestigio del Lirico napoletano a fronte, e senza pregiudizi né alcuna detrazione d'ordine qualitativo, di proposte decisamente ibride come il contiguo concerto di Pasqua in programma venerdì e sabato prossimi dividendo a metà la serata fra Enzo Avitabile (in qualità di autore nonché di voce recitante) e una proposta iperclassica (Mendelssohn, Haydn e Rimskij-Korsakov, con la violinista Esther Yoo per l'op. 64) al fianco dell’Orchestra della Fondazione, diretta prima da Maurizio Agostini, poi da Yuri Simonov.

Un evento, quello di Sokolov, che ha invece non solo toccato le vette sacre del rito, con modalità neanche troppo distanti da quanto visto e sentito in passato con un altro pianista immenso quale Sviatoslav Richter, ma anche rivelato l'unicità di sostanza del mito: sala e palcoscenico quasi completamente al buio, soltanto una luce dorata e assai fioca atta a illuminare la tastiera e in penombra l’interprete, silenzio assoluto. Ed è così che, su quel silente stupore di un San Carlo giustamente pieno di pubblico, hanno poggiato le sue mirabili note: sonore e limpide come il cristallo, tornite attraverso uno scatto che è ritmo, luce, stile e innanzitutto motore entro una logica analitica sempre chiarissima, intenta a saldare in relazioni perfette micro e macro strutture, dinamiche, linee motiviche, raffinata scrittura virtuosa e peculiari tracciati armonici. In tale prospettiva unitaria, così come dimostrato anche dai mal tollerati e dunque smorzati applausi fra un brano e l’altro, si è svolta la prima metà della serata, dedicata alla forma-sonata classica di stile empfindsam o Sturm und Drang rileggendo di Franz Joseph Haydn le opere 32, 47 e 49. Opere di nobiltà estrema, nelle premesse legate dal malinconico filo comune della tonalità minore così come, negli esiti interpretativi, da uno staccato adamantino mirato a svelarne in parallelo le radici barocche quanto le architetture puramente classiche e finanche le imminenti ombreggiature preromantiche esaltando lo smalto degli abbellimenti, il nitore delle frasi e la densità nella gamma delle tinte espressive. Tre Sonate diverse e distinte ma straordinariamente restituite nella comune corrispondenza di cifra, metro e struttura, ritmo e colore.

Non differente l’approccio, a seguire, per i Quattro Improvvisi op. 142 di Franz Schubert, laddove lo staccato restava ben fermo e saldo ma in filigrana e, dunque, quale impulso interno ad un legato dalla sensibilità pur sinceramente romantica quanto costantemente attenta alla filiazione dagli equilibri apollinei della grande Era Classica viennese. Nel complesso, un gioco di riflessi e contaminazioni, di grande controllo digitale e di perfetta intesa fra ampie architetture simmetriche e forme brevi, illuminate entrambe da un’assoluta felicità del tocco e da una sapienza musicale che è, veramente, dono riconoscibile in pochi altri eletti.

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