Bel centro con successo messo a segno e attraverso più bersagli dal Teatro San Carlo in occasione delle celebrazioni rossiniane scattate quest'anno per il centocinquantenario dalla morte del compositore pesarese, a Napoli dal 1815 al 1822 su chiamata dello scaltro impresario Barbaja per nove opere e la direzione dei Reali Teatri San Carlo e Fondo, oggi Mercadante. Obiettivi assai apprezzati in parallelo, infatti, fra la mostra particolarmente preziosa "Furore napoletano" curata dallo specialista Sergio Ragni al MeMus, con pendant alla Biblioteca Nazionale "Vittorio Emanuele III", e il Mosé in Egitto ancora in scena oggi (ore 17) e martedì (ore 20) per poi uscire in trasferta con alcuni estratti giovedi 22 al Duomo di Orvieto sotto la bacchetta di Donato Renzetti e con differita su RaiUno in Eurovisione la sera di venerdì 30 dopo la Via Crucis di Papa Francesco.
Autore geniale, Gioachino Rossini, post-illuminista e antiromantico, straordinario in un genere serio rilanciato facendo leva inedita sul contralto en travesti in luogo del castrato di registro sopranile, quanto portando nuovo ritmo, colorature e risus in ambito semiserio e, in special modo, nel buffo, con capolavori assoluti quali Cenerentola e Barbiere. Pertanto senz'altro lodevole, oltre all'idea di riportarlo in scena a 200 anni esatti dalla prima assoluta avvenuta in periodo quaresimale il 5 marzo 1818, la volontà di porre in primo piano un genere al di fuori delle parti, etichettato come azione tragico-sacra e, in concreto, originalissimo mashup fra grand'oratorio e melodramma di sperimentale invenzione secondo una scrittura mai più tentata oltre i confini partenopei, appunto quale esempio-limite in termini di stile e drammaturgia musicale. Ossia, tagliando via la Sinfonia ma direttamente, nel caso specifico del Mosè, aprendo su circa quindici minuti di buio totale in sala, scena e buca lungo il tremore sonoro di ottoni e Coro in coincidenza con la piaga dell'Egitto oscurato dalle tenebre; quindi, gran peso sui recitativi accompagnati, rare le arie e molti i pezzi d'assieme per un'articolazione complessiva pronta a contaminare forme chiuse e quadri in forma mista così come auspicato nel secondo Settecento dalla riforma di Gluck e Calzabigi, già in atto per via autonoma nel solco francese e con altri intenti monitorato nel superbo Idomeneo mozartiano. Il titolo, tra l'altro, ritornava a distanza di un quarto di secolo da quell'ultimo allestimento a firma di Hugo De Ana per regia, scene e costumi (su impianto scenico del Comunale di Bologna e adattamento del Covent Garden di Londra) proposto all'inaugurazione della stagione 1993/1994, con l'allora direttore musicale Salvatore Accardo sul podio e le gloriose voci di Mariella Devia, Roberto Scandiuzzi, Rockwell Blake e Michele Pertusi. Stavolta lo spettacolo era invece quello creato quattro anni fa a Cardiff dal regista inglese David Pountney con targa Welsh National Opera e fin qui inedito per l’Italia, con le scene essenziali di Raimund Bauer ispirate alle figure di Chagall e ai riquadri astratti di Mark Rothko, i costumi di Marie-Jeanne Lecca, le luci di Fabrice Kebour e affidato, al suo esordio sancarliano, alla notevolissima direzione musicale di Stefano Montanari (nelle foto di Luciano Romano).
Di moderna matrice pittorica e dunque giocata sul contrasto cromatico fra due mondi, uno rosso e uno blu, con relativi schieramenti in cromìe calde e fredde rispettivamente per gli Egizi e per gli Ebrei, emblemi inoltre di ogni altro tipo di contrasto fra elementi o ideali, la prima scena in piena luce dopo le tenebre era totalmente affidata all'imponenza di due muri-pannello uniti o aperti in angolazione variata al centro, a seconda delle diverse esigenze drammaturgiche: per far brillare sui popoli il grande sole, mostrando lo scheletro dell'impalcatura interna nei confronti relazionali in assieme, per stringere al centro il bagliore del fulmine che ucciderà Osiride, per aprirsi al passaggio degli Ebrei sul Mar Rosso. Essenziale, dunque, ma di grande impatto ed efficacia sicura, così come i costumi e lo stesso trucco, dipinti con tratti fauve. Meno convincenti negli esiti, invece, i movimenti soprattutto delle masse, troppo incerti, lasciati al caso o forzati rispetto agli intuibili obiettivi geometrizzanti.
Ad ogni modo cardine dell'intero spettacolo si è rivelata la direzione musicale di Stefano Montanari, talento ravennate classe 1969, look rock-metal, interessi fra il Barocco e il Jazz più una speciale passione per l'opera che, in Rossini, ha portato tanti colori in più accanto a raffinati prodigi sonori attraverso una non comune intelligenza analitica e una personale sensibilità musicale. Dunque dinamiche curate al millesimo oltre la scelta esatta dei tempi, l'invenzione messa in campo per far brillare persino i semplici recitativi accompagnati, il perfetto sostegno alle voci, la preziosa tornitura delle articolazioni macro e micro-strutturali. Ottima in tutti i ruoli e nei diversi interventi, di conseguenza, la risposta di un'Orchestra singolarmente reattiva qual è - almeno dall'ultimo cambio generazionale - quella del Teatro San Carlo.
E così, fra le voci, un plauso speciale spetta in primis al soprano Carmela Remigio, rossiniana doc (ma ben ricordiamo anche la sua Tatjana da oscar nell'ultimo Onegin visto al San Carlo o la mozartiana Contessa) ma soprattutto grande interprete nel ruolo che fu della Colbran (l'ebrea Elcìa) per il controllo assoluto di ogni nota ed accento, per l'intonazione perfetta, per una linea melodica lucente quanto espressiva in un'arte particolarmente attenta al legato. Brillante nelle affilate colorature quanto intensa negli affondi emotivi, così come tracciato a punta di diamante nel bellissimo Quartetto di stupore "Mi manca la voce", nella sua unica aria “Porgi la destra amata” o nella svettante cabaletta “Tormenti! affanni! smanie” interna all'aria di tormento “È spento il caro bene”. Non meno interessanti, al suo fianco, le prove sia della brava e virtuosa Christine Rice per Amaltea che del Faraone di Alex Esposito, basso-baritono dotato di un'emissione naturale e potente, dai fiati infiniti e ben duttile non solo nelle diverse zone dell'estensione, ma anche nello scolpire i molteplici stati del suo animo. Non poche perplessità, invece, suscitava l'Osiride del tenore Enea Scala, scenicamente assai convincente mentre, sul fronte canoro, la parte ha spesso sofferto di un'emissione compressa con conseguenti incertezze d'intonazione, sforature nei passaggi e acuti purtroppo quasi sempre schiacciati seppur a fronte di un bel timbro e di un vivo temperamento. Completavano il cast il valente tenore Alasdair Kent per il malvagio consigliere Mambre, l'Aronne di Marco Ciaponi, il sonoro ma non infallibile basso Giorgio Giuseppini per Mosè e l'ottimo mezzosoprano Lucia Cirillo per Amenofi.
Un protagonismo a parte spettava intanto al Coro della Fondazione, preparato da Marco Faelli e apprezzato, per integrità di fibra e bellezza di tinta, prevalentemente nella sezione delle voci maschili. Suggestiva ed intensa, ad ogni modo, la celebre Preghiera finale "Dal tuo stellato soglio".
In chiusura, caldi applausi per tutti e qualche entusiasmo in più per il poker vincente formato da Stefano Montanari, Carmela Remigio, Alex Esposito e Christine Rice.
Si vieta la riproduzione dell'articolo e di ogni altra sua parte