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  • Paola De Simone​ ​​ ​

Un triplice, prezioso percorso di musica e arte realizzato con rara sapienza legando assieme linguaggi sonori, pittorici e plastici splendidamente a segno e in parallelo fra Napoli e Parigi all'epoca di Claude Debussy, Édouard Manet e Marcel Proust. Originalmente in bilico fra l'ipersensibilità decadente di fine Ottocento e le tinte sfumate dell'Impressionismo arrivato a toccare il primo Novecento attraverso piccoli e grandi capolavori, ai più neanche noti perché in gran parte provenienti da collezioni private, con l'orgoglio di firme e notevolissimi interpreti partenopei o, comunque, del Sud. Ad averlo proposto con grande efficacia, per tre sere e grazie al sostegno illuminato di Intesa Sanpaolo, il progetto della Fondazione Pietà de’ Turchini in ideale sinergia con la mostra - davvero bellissima - “Da De Nittis a Gemito. I napoletani a Parigi negli anni dell’Impressionismo”, curata da Luisa Martorelli e Fernando Mazzocca nelle Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano, aperta fino all’8 aprile 2018. Intorno, uno scrigno

sorprendente che svela scorci di Napoli e passeggiate parigine, tradizioni, volti, fanciulli, prospettive vulcaniche, spaccati e panorami della nostra terra, fra l'azzurro respiro che ne unisce il mare e il cielo, il livido grigiore delle polveri laviche, il vissuto quotidiano, borghese o popolare, di interni ed esterni: vale a dire, gli emblemi della "pittura della vita moderna" (nelle foto sotto) nati in osmosi fra i luoghi a cornice del Vesuvio e le esposizioni lungo la Senna a firma di Vincenzo Gemito (compreso il prestito d'eccezione del Pescatore, presentato all'Esposizione Universale nel 1878), Giuseppe Palizzi, Domenico Morelli, Antonio Mancini, Francesco Paolo Michetti, Gioacchino Toma, Edoardo Delbono, Giacomo Di Chirico, Alceste Campriani, Michele Cammarano, Francesco Netti, Federico Rossano, Edoardo Tofano (nelle immagini a seguire, dopo la locandina della mostra, lo splendido Pranzo a Posillipo di De Nittis dalla Collezione Grassi della Galleria Civica di Milano, il Bagno pompeiano di Domenico Morelli, il Pescatore di Gemito, Giù Mergellina e Mezzogiorno a Capri di Campriani, Sirene moderne di Dalbono, Uno sposalizio, costume di Basilicata, del potentino di Venosa Di Chirico, con relativo dettaglio, e un particolare da La raccolta delle zucche di Michetti).

Quindi su pari raffronto e ad intreccio, in ascolto pentagrammi a firma dei francesi Fauré, Poulenc, Debussy e dei napoletani per nascita e formazione Luigi Denza (nato in realtà a Castellammare di Stabia), Franco Alfano, Mario Pilati o, per "elezione culturale", Francesco Paolo Tosti (abruzzese, formatosi al "San Pietro a Majella" addirittura con Mercadante), Francesco Cilea (calabrese, direttore del Conservatorio di Napoli), Nino Rota (milanese, compositore per il cinema da oscar, a lungo docente e direttore degli Istituti musicali pugliesi, tanto che a lui è intitolato il Conservatorio di Monopoli), fra melodie e romanze per canto e pianoforte o brani strumentali a solo e per formazione da camera, con relativi titoli-etichetta ed esiti parimenti premiati da un vivo, meritato successo. Il primo appuntamento, “Promenade Napolitaine”, ha visto la sera dello scorso 6 febbraio due ottimi interpreti napoletani, quali il mezzosoprano Gabriella Colecchia e il pianista Dario Candela (nella prima e quarta foto), dar forma ad un tracciato impressionistico giocato ponendone in rilievo e a confronto il variegato ventaglio di stilemi, quindi attraversando le morbide ed eleganti linee attraverso le chansons di Fauré (Le papillon et la fleur, Automne, Mai, Chanson du pecheur, Au bord de l’eau, Après un rêve), la tempra incisiva di Francis Poulenc (Air Romantic, Violon, Voyage à Paris, Torédor, Hotel, Les chemins de l’amour) accanto a rare torniture di marca italiana tra un cammeo (Sonnet) di Franco Alfano e tre pezzi di schietta linfa partenopea scritti da Mario Pilati (O’ vico, Divuzzione, Tammurriata). Il tutto, collegato da due "intermezzi" prettamente pianistici divisi fra il sempre seducente Debussy della Prèmière Arabesque e ancora il napoletano Pilati - compositore di talento, Premio Coolidge nel 1927, scomparso prematuramente a soli 35 alla vigilia della Seconda Grande Guerra - con le tre Bagatelle per pianoforte.

Cuore dell'itinerario, a seguire, il programma “Allée – Retour” proposto la sera del 10 febbraio per guardare alla Belle Époque entro una singolare quanto efficacissima trama di rimandi motivici e di stili fra le due capitali culturali in campo. A raccontarne magnificamente i dettagli, le sfumature e le espressioni molteplici, una voce di notevolissimo calibro e talento, quella del soprano Maria (Isa) Ercolano - brava nel repertorio barocco quanto all'estremo nelle liriche del Novecento e, oggi, lirico spinto di grande sensibilità e potenza - nell'occasione accanto a un pianista di non comune efficacia stilistica e intelligenza musicale, Antonio Maione (nella seconda e quinta foto). Entrambi napoletani e con un solidissimo cammino artistico alle spalle, hanno restituito in formula ideale di quel quadro storico-culturale e in

duttile attinenza con il pregiato contesto d'arte che li circondava, colori, emozioni, respiri, sussurri e iridescenze, fra elegante naturalezza e vezzi salottieri. Un florilegio fatto di tante piccole e preziosissime perle andate a illuminare con luce perfetta le diverse tappe di un viaggio scandito da una mutevole ma sempre esatta, piena intesa fra il senso, il suono dei lessemi e quello delle note: ad aprire l'ascolto un trittico di tenere Mélodies francesi scritte a Parigi e in età differenti da Gabriel Faurè. Nella giovanile Mai gli interpreti, fra voce e pianoforte, hanno mirabilmente restituito la semplice naturalezza di una fresca giornata di primavera mentre ne Les berceaux di oltre quindici anni dopo l'oscillare fra dolcezza e dramma porta il pensiero a quelle culle lasciate senza padri dai mariti in partenza verso il mare. E poi l'Après un rêve, diviso tra le felici illusioni di un sogno menzognero e la realtà dolorosa al consapevole risveglio. Sul fronte partenopeo, quindi, esemplare la gestualità canora scolpita dalla Ercolano nelle Romanze di Francesco Paolo Tosti (Pour un baiser, Chanson de l’adieu, Ninon) così come particolarissima è stata la miscela evidenziata nei brani di Luigi Denza (L’échange, Violettes/ Sonnet d’Automne, Riant portrait, Si tu m’amais!) fra i testi in francese e gli accenti genuini del suo mitico cult "Funiculì funiculà". In chiusura, Francesco Cilea con la romanza più celebre dall'opera Adriana Lecouvreur”, "Io son l’umile ancella", scolpita con un corpo e una tinta di voce spettacolari - l'unico rimpianto è sentire non lei ma interpreti spesso inadeguate nei maggiori ruoli d'opera in repertorio - dall'applauditissima Maria Ercolano, ulteriormente apprezzata per accenti e autenticità melodica nell'appropriato bis "Napoletana" dall'operetta Scugnizza di Mario Costa.

Un pari successo ha riscosso infine anche l'ultimo dei tre capitoli attraverso i quali l'esperienza d'arte ha realmente e profondamente incontrato la musica: un denso momento da camera intitolato “Identità parallele: Francia e Italia” (nella terza e nelle ultime due foto; per l'ascolto integrale del concerto si rinvia al link https://www.youtube.com/watch?v=OGb6G4JfWfA&feature=youtu.be) non solo

puntato attraverso la scelta del programma sulle due grandi città della cultura, ma anche nella particolare combinazione degli interpreti fra un clarinettista francese, Eric Porche, un pianista napoletano, Dario Candela, e il violoncellista romano (ma sancarliano e dunque napoletano d'adozione) Luca Signorini: tre solisti di diversa estrazione ma per tecnica, dinamiche e intenzioni espressive in totale simbiosi. In primo piano, c'era un brano rarissimo, qui proposto in prima esecuzione, ossia la Sonata per violoncello e pianoforte in la di Mario Pilati: un ponte che, dalla sua specificità partenopea (melodie di ampio respiro, struttura aperta e non estranea alla più celebre pagina del Denza), decisamente guarda alla Parigi di Debussy (molto a Jardins sous la pluie), al belga Franck, alle tinte suadenti di Gabriel Fauré e allo spagnolo attivo a Parigi de Falla ma, anche, all'ineludibile camerismo brahmsiano. A partire dal successivo Fauré, al gruppo, si è quindi unito in trio Eric Porche, clarinettista dal suono brillante ma sempre assai rotondo e morbido. Insieme, della pagina, hanno cesellato timbri e accenti, curve dinamiche e dialoghi intensi. Infine il brillante Trio, sempre per clarinetto violoncello e pianoforte, di Nino Rota: un fuoco di ritmi ribattuti e di incastri non facili, sapidamente mediterraneo ma saggiamente attento alle migliori esperienze dei russi, Prokof'ev e Sostakovich su tutti. Un fuoco alimentato dai tre interpreti in serrato assieme e ad armi tecniche pari, legato dal pianismo ben affilato e sempre molto raffinato di Dario Candela, avvolto dall'amalgama di suoni del clarinettista Porche e vibrato attraverso le belle arcate, pregne di melos e pathos, del violoncellista Luca Signorini.

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