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  • Paola De Simone​ ​​ ​

"Abbiamo molto denaro [...] E come lo investiamo? [...] La vera ricchezza di questa città è la cultura, ma non è la cultura vecchia, sorpassata ... Sì abbiamo venduto le opere d'arte ai privati, e i monumenti li abbiamo dati in affitto perpetuo: il Maschio Angioino è un resort di lusso, il Chiostro di Santa Chiara è dei Cinesi, San Gregorio Armeno ce l'ha il Presidente nel suo giardino. Ma bisogna andare oltre" tuona la voce sferzante dell'attore Toni Servillo nel ruolo del tracotante Calebbano dal palcoscenico del Teatro San Carlo in apertura di Eternapoli, il melologo da settanta minuti applaudito in prima assoluta e basato sull'apocalittico testo di Giuseppe Montesano (da lui stesso adattato dal romanzo a sua firma "Di questa vita menzognera") in abbinamento alla musica inedita di Fabio Vacchi per due voci recitanti, coro misto e grande orchestra. Il tutto appositamente commissionato dal Lirico napoletano e, nell'occasione, diretto da Donato Renzetti (nelle foto).

Eternapoli o, come da libretto, Neapolis Dream, parco-teatro a tema nato facendo tabula rasa del passato per ricostruirlo ex-novo, in formula virtuale e vivente. Ossia, facendo rivivere su richiesta dell'utente l'eruzione del Vesuvio come la rivolta di Masaniello: è dunque uno sguardo dal monito profetico quanto dolorosamente realistico verso un baratro culturale in cui stiamo vedendo scivolare e sparire le nostre radici più autentiche, la storia, il sapere, il valore delle competenze. In sintesi, è la consapevolezza della svendita della nostra stessa identità a vantaggio del falso e del finto, del ricco ignorante e del potente. In ogni campo. Sembra quasi di averlo già visto e ben conosciuto, quel Calebbano, attraverso la sua terrificante, distorta politica culturale da quattro soldi in via quasi psicoanalitica coraggiosamente enunciata/denunciata a gran voce - e dunque elaborata - con Eternapoli proprio dalle assi del San Carlo. Una politica senza scrupoli pronta a svendere di una città dalla rara bellezza qual è Napoli i luoghi antichi e la verità dei paesaggi, l'Arte e la Cultura, complici il potere centrale e la forza dei soldi. Si citano Pompei e lo stesso Lirico napoletano, il Golfo e il Vesuvio, il centro storico. Manca giusto Bagnoli, ma il quadro è assai chiaro e ben più vicino di quanto la cupa distopia immaginata da Montesano possa lasciar credere. Il pubblico segue come ipnotizzato, e al contempo sospeso entro una riflessione che colpisce le coscienze tutti, l'alternarsi dei dialoghi affidati agli attori - un sempre bravissimo Toni Servillo nel suo mix di italiano e partenopeo, di Calibàn e Prospero shakespeariani, accanto ad una non meno efficace Imma Villa, luminosa e stentorea voce della coscienza - cui seguono, a complemento descrittivo, i rigurgiti sonori di un'orchestra immensa, esposta sul grande impegno delle percussioni (bravo Pasquale Bardaro al vibrafono, al tamburo militare e al tamburello basco) e dei fiati. In filigrana, valzer grotteschi e ritmi di marcia sardonica, aperte luminescenze oniriche sollecitate dal termine "dream" o espressionistiche alterazioni dei ritmi di Tarantella o di altri "cult" sonori partenopei.

Scrittura non facile e assai raffinata, bella e politonale, quella originalmente scolpita in pentagramma da Fabio Vacchi - e restituita con vivo polso da Renzetti - tuttavia mantenendo sempre ben saldi i legami con il grande Novecento storico attraverso il Prokof'ev dell'Aleksandr Nevskij o del Romeo e Giulietta, lo Šostakovič sinfonico e persino non allontanandosi dalla moderna Cantata (con tanto di scetavajasse e putipù) creata da Roberto De Simone proprio per il San Carlo, in special modo nel trattamento del ben disciplinato Coro. Il Coro, appunto: voce di un popolo napoletano snaturato perché omologato in folla rumorosa ma, anche, nobile medium da teatro eschileo entro ed oltre la scena, aggancio tra finzione e realtà, che sulla chiaramente simbolica ripetizione ternaria (oltre che link alla tradizione dolciaria) esclama: "Bà-Bà-Bà-Eternà, Bà-Bà-Bà-Calebbà". E ancora, rafforzando come narcotizzato le idee del Calebbano-Servillo "Scassà pe' costruì / costruì pe' scassà" o, addirittura, forzando i paletti della decenza lessicale secondo un'intelligibilità fin qui mai udita nella gloriosa sala del Niccolini, "O giudice ce rompe o' cazzo? (Coro maschile) / E nuie arrestammo 'o giudice! (Coro femminile) / Sì nu' ggenio Calebbà (Coro tutto)". Così come a seguire, su pari formula divisa con clausola mista "O popolo nun vo penzà! / O popolo vo fottere e magnà! / Bà-Bà-Bà-Calebbà".

Nell'insieme, una marea sonora che ha il suo climax parossistico - un po' come nel finale di uno dei più diffusi modelli settecenteschi, Le ultime sette parole di Cristo sulla croce di Haydn, richiamato anche nel finale corale e attraverso lo spettro del quartetto d'archi - a commento (e forse a liaison fra i drammatici eventi che sconvolsero Napoli e il Sud il 23 novembre 1980 così come il Calvario raccontato dal Vangelo secondo Matteo) fra le parole urlate dal Calebbano: "Arriva il terremoto! Tutto barcolla! Tutto crolla... Guardate, il San Carlo si accartoccia, si schianta ... cade tutto il passato, cade tutto il vecchio mondo: ma non piangete: la morte non esisterà più [...] perché le cose di prima sono scomparse... La vecchia città muore e sorge Neapolis Dream". Ma saranno i pochi, lapidari interventi della voce di donna a rassicurarci, a restituire il senso delle parole e a illustrarci in una chiusa ascensionale, che dà sollievo (bella l'idea di evidenziarne la forza mantenendo bidimensionale la sovrapposizione con il Coro), la via per un finale relativamente migliore: "Liberiamoci del Calebbano, [...] non uno solo, ma tutti... La notte sembra infinita, ma non è vero, ci stiamo svegliando, le voci dicono che il mattino verrà, e saremo giudicati sull'amore: così sia, così sia, così sia".

Tanti gli applausi al termine, per l'Orchestra e il Coro della Fondazione, per il direttore Donato Renzetti e per gli attori, in special modo per Toni Servillo, grande interprete e vate della Grande Bellezza. Ma questa volta, quella di Napoli.

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