Considerata l'alta qualità e l'impatto innanzitutto teatrale del bellissimo My Fair Lady di Lerner & Loewe (nelle foto di Luciano Romano), al debutto in queste sere e fino a mercoledì 14 febbraio per la locandina d'opera e di balletto al San Carlo come primo musical nato con targa del Lirico napoletano, in collaborazione con il Massimo di Palermo e a firma di Paul Curran più scene di gran vaglia di Gary McCann, nonché alla luce dei grandi risultati dimostrati negli ultimi mesi da Orchestra e Coro della Fondazione nei ben più complessi e consoni ambiti sia lirico che sinfonico, sarebbe opportuno domandarsi: perché non destinare tanto impegno produttivo e pubblicitario (audizioni mirate, nuovo allestimento, flashmob e coinvolgimento di circa duemila studenti) anche a titoli radicati nello studio possibilmente su basi scientifiche della nostra migliore tradizione musicale e in linea con le glorie storiche dello stesso San Carlo, pur in anni recenti in minima parte riesumati ma senza un reale progetto a supporto e in forma diversa rispetto all'originale, con cantanti di medio o comunque disarmonico livello, attraverso opere per noi meno significative (pensiamo a Jommelli) e magari (l'Achille in Sciro della prima inaugurazione assoluta nel 1737) pure senza scene? Vale a dire, non le ennesime Traviate, Carmen, Cavalleria e Bohème o focus creativo con trecento audizioni su duemila quattrocento aspiranti per un prodotto che ha tanto ricordato il mondo pur valoroso quanto da noi culturalmente distante di Mary Poppins in favore, piuttosto, di titoli del Sette, Ottocento - e finanche Novecento - creati per i nostri palcoscenici a partire da Alessandro Scarlatti, Pergolesi (al San Bartolomeo), Domenico Sarro, Manfroce, Pacini, a tante "prime" fondamentali negli anni delle blasonate direzioni di Saverio Mercadante, Gioachino Rossini, Gaetano Donizetti come nell'era Di Costanzo. Lavori per i quali restano nei maggiori archivi cittadini copioni, libretti e partiture manoscritte o addirittura autografe, documenti, lettere, pagamenti, scene, figurini. Ossia, le nostre radici colte ed autentiche, come il Flaminio di Pergolesi con la deliziosa regia di Roberto De Simone accanto a un suo titolo emblema qual è la Gatta Cenerentola. O al limite, volendo nobilitare il genere "musical" che al San Carlo conta a nostra memoria un unico precedente (un West Side Story di Bernstein a pacchetto chiuso considerato che il Candide dello stesso autore, in epoca artistica Carlo Mayer, è un'operetta, e il Porgy and Bess di Gershwin un'opera nera) commissionarne la partitura a un compositore di nuova generazione come probabilmente farebbero alla Scala o all'Opéra di Parigi.
Detto ciò, per spirito e qualità ha divertito, coinvolto e meritato il buon successo ricevuto dal pubblico il musical in inedita produzione sancarliana (dieci le recite in sette giorni e due date a doppio spettacolo) con una Compagnia rigorosamente "made in London" selezionata ad hoc e microfonata, Coro, Orchestra e Corpo di ballo "di casa" ma in dimesioni ridotte e con il sempre apprezzato Donato Renzetti sul podio. Musical, in verità, per lo più recitato (su circa tre ore) in una serrata e velocissima lingua originale inglese, fra marcato slang cockney e purismo linguistico alto-borghese, con pochi ma celebri (per gli ascoltatori meno giovani) numeri musicali e dunque sguardo d'obbligo all'insù, ai sovratitoli, parimenti in corsa, tradotti facendo quadrare con qualche forzatura significanti e significati.
In primo piano, la storia del riscatto sociale della rozza fioraia Eliza che, da oggetto di fredda sperimentazione fonetica intrapresa per sfida e gioco dal linguista Henry Higgins con l'amico Colonnello Pickering, diventa il perno attorno al quale ruotano tanto le idee di riflessione socio-culturale e (come ben sottolineato dal regista Curran) di emancipazione delle donne, quanto le diverse fonti e metamorfosi di riferimento per il musical scritto nel 1956 da Alan Jay Lerner per libretto e da Frederick Loewe per la musica, a sua volta ispirato al plot della commedia Pygmalion (1913) di George Bernard Shaw. E, con gran salto a ritroso, all'omonimo mito che narra nelle Metamorfosi di Ovidio la storia di un artista o di un re innamoratosi della statua creata, fino al punto da chiedere e ottenere dagli dèi dell'Olimpo il dono che la sua scultura possa prender vita. E ancora, dal baule delle fonti principali, c'è da tirar fuori la versione cinematografica realizzata nel 1938 da Gabriel Pascal con un lieto fine in remake curato dallo stesso Premio Nobel Shaw, con Eliza che va in sposa al professor Higgins anziché accontentarsi dell'amorevole Freddy quindi, in special modo, il celeberrimo My Fair Lady cinematografico (1964) di George Cukor, con i mitici Rex Harrison e Audrey Hepburn.
A colpire, nell'occasione, sono innanzitutto le scene dell'ottimo Gary McCann, i bei costumi della sancarliana Giusi Giustino e l'efficacia registica di Paul Curran. Con mano elegante e leggera lo scenografo riproduce in misura esatta ed entro un colonnato a cornice fissa i diversi quadri in cui si svolge l'azione: l'affollato mercato dei fiori al Covent Garden, la dimora di Mr. Higgins, al n. 27 di Wimpole Street, sia in interno con lo studio in legno tappezzato di libri più scheletro scientifico, che in esterno edoardiano, il quartiere degradato cui appartiene il padre di Eliza, Alfred P. Dolittle, l'ippodromo di Ascot (magnifica la corsa dei cavalli riprodotta dal veloce e rumoroso scalpitare dei piedi si presume degli orchestrali), il lussuoso e opulento roseto nella residenza dell'altolocata Mrs. Higgins, madre di Henry e sana complice al termine nel sostenere la dignità della - volendo tentare almeno un pertinente aggancio in locandina lirica attraverso l'ultimo titolo - "gaia fioraia".
Quanto agli esiti canori e musicali: la Compagnia londinese è brava e ben funziona in tutti i ruoli assegnati. Di gran carattere sebbene non bellissima è la protagonista Eliza Dolittle di Nancy Sullivan, interprete dotata di spirito e di una spiccata sensibilità musicale andata a sostenere un'emissione naturale, dal colore assai chiaro e persino infantile (tipo Giselle nel disneyano Come d'incanto, anno 2007). Una voce luminosa nelle sortite liriche quanto sferzante nelle ampie sezione in parlato.
Robert Hands scolpisce quindi ad arte, e al suo fianco, un Mr. Henry Higgins a nervi e timbri tesi, scapolo incallito quanto sperimentatore ostinato ma in fondo, non come nell'originale Pygmalion di Shaw, anche lui dal cuore umano. Assai convincenti tutti gli altri artisti del cast, dal grossier Alfred P. Doolittle di Martyn Ellis al rigido ma di buon animo Colonnello Pickering di John Conroy, dal generoso Freddy Eynsford-Hill di Dominic Tighe a un'ottima Julie Legrand per una Mrs. Higgins alla Maggie Smith. Fra i momenti più alti, il quintetto della svolta "Wouldn't it be Loverly", la dissociante incomunicabilità fra i due poli culturali sottolineata da Curran (e perfettamente restituita dagli interpreti) facendo sforzare Eliza "a loop" nei suoi esercizi meccanici sui vaghi discorsi molto british dei due professori in sfida, il coro dei domestici, le sortite comiche all'ippodromo, il valzer notturno "I could have danced all Night" cantato da Eliza su uno sfondo-citazione (letto più immensa luna piena) dal Pomi d'ottone e manici di scopa di Stevenson-Disney.
A contorno, Gillie Bevan (Mrs. Eynsford-Hill), Rachel Izen (Mrs. Pearce), Lee Orsmby (Harry), Harry Morrison (Jamie) più, in ensemble, Helen Colby, Jenna Boyd, Lauren Ingram, Olivia Holland-Rose, Matt Harrop, Liam Wrate, Nicholas Duncan, Michael Cotton. Apprezzabili, nei limiti della congenialità possibile, le prestazioni delle compagini artistiche della Fondazione, quindi del sempre affidabile Coro curato da Marco Faelli, della Compagnia di balletto - maggiormente a proprio agio, sulle raffinate coreografie di Kyle Lang - diretta da Giuseppe Picone. E di un'Orchestra, in formula da camera con buona linea di ottoni e tanto di batteria, che Renzetti ha guidato esaltando, di una partitura sostanzialmente limitata al funzionale accompagnamento, lo smalto swing e il tiro da parata anglo-americana.
Infine, degno di nota, il coinvolgimento in Teatro di centinaia di musicisti giovanissimi diretti da Carlo Morelli per il flashmob sempre dedicato a My Fair Lady, la mattina di Martedi grasso (13 febbraio) con partenza da piazza del Plebiscito alle ore 12.
Presente ai preparativi anche il sindaco Luigi de Magistris (nell'ultima foto) che sarà presente all'appuntamento del giorno 13, in piazza, al fianco di oltre duemila ragazzi chiamati a raccolta da tutte le scuole di Napoli, della Campania e italiane fra strumentisti, ballerini e elementi del coro. L'iniziativa di promozione laboratoriale e diffusione della cultura musicale sul territorio si è avvalso del supporto di Generali Italia.
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MY FAIR LADY
Libretto e testi di Alan Jay Lerner
Musica di Frederick Loewe
Adattamento dalla commedia di G. B. Shaw
E dal film di Gabriel Pascal “Pygmalion”
Nuova Produzione del Teatro di San Carlo
In coproduzione con il Teatro Massimo di Palermo
Direttori Donato Renzetti – Maurizio Agostini (9-10-14 febbraio)
Regia Paul Curran
Scene Gary McCann
Costumi Giusi Giustino
Coreografie Kyle Lang
Luci David Martin Jacques
Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro di San Carlo
Interpreti
Eliza Doolittle, Nancy Sullivan
Mr. Henry Higgins, Robert Hands
Alfred P. Doolittle, Martyn Ellis
Colonnelo Pickering, John Conroy
Freddy Eynsford-Hill, Dominic Tighe
Mrs. Eynsford-Hill, Gillian Bevan
Mrs. Pearce, Rachel Izen
Mrs. Higgins, Julie Legrand
Harry, Lee Orsmby
Jamie, Harry Morrison
Ensemble, Helen Colby, Jenna Boyd, Lauren Ingram, Olivia Holland-Rose, Matt Harrop, Liam Wrate, Nicholas Duncan, Michael Cotton
Martedì 06 Febbraio 2018, ore 20
Mercoledì 07 Febbraio 2018, ore 20
Giovedì 08 Febbraio 2018, ore 18
Venerdì 09 Febbraio 2018, (doppio spettacolo) ore 17 // ore 21
Sabato 10 Febbraio 2018, (doppio spettacolo) ore 17 // ore 21
Domenica 11 Febbraio 2018, ore 17
Martedì 13 Febbraio 2018, ore 20
Mercoledì 14 Febbraio 2018, ore 18