Ad accogliere l’arrivo del Direttore musicale Juraj Valčuha, sul podio della "sua" Orchestra targata Teatro San Carlo, è un applauso fragoroso. Più del solito. Un applauso carico di partecipazione, entusiasmo e con giudizi di orgoglio in sala senz’altro collegabili, oltre che alla stima di sempre, ai suoi recenti, alti traguardi messi a segno con La fanciulla del West di Puccini inaugurale e in special modo con lo scorso sinfonico siglato da un'esemplare versione da concerto dell’atto unico Il castello di Barbablù di Béla Bartók. Dall’altra in palcoscenico, dai giorni della nomina in qualità di Direttore Musicale del Lirico napoletano ricevuta nell’ottobre del 2016, per la prima volta abbiamo visto il giovane direttore slovacco divertirsi ed entusiasmarsi sinceramente, ottenendo ancora una volta, grazie a una riconosciuta preparazione radicata in un ferreo magistero tecnico, in una profonda intelligenza analitica e in una cultura autentica, da non confondere con fama o abilità conquistate con tutt'altra lega, risultati ancor più strabilianti da una compagine strumentale ormai in piena sintonia e reattiva liaison con le sue lucidissime disamine, attraverso esatte intenzioni stilistico-espressive, un gesto attento e impeccabile. È quanto notato e confermato attraverso gli esiti dello scorso capitolo concertistico (nelle foto di Luciano Romano), sulla carta evento puntato sulla presenza di uno dei massimi violinisti italiani del secondo Novecento nonché vanto della scuola napoletana, Salvatore Accardo, a tutt’oggi emblema e Maestro di un virtuosismo affilatissimo quanto inossidabile. Ad un complessivo sguardo l'evento è andato invece ben oltre e a ben testare, al di là del significativo primo piano sul solista (a sua volta in passato vertice musicale al San Carlo), la serrata disciplina e la singolare magia che Valčuha, grazie anche ad una continuità stavolta garantita dalla sostituzione del Direttore onorario Mehta causa intervento alla spalla, riesce ormai in misura via via crescente a tirar fuori dalla sua Orchestra, facendo leva su potenzialità a nostro avviso da sempre assai notevoli quanto – pensiamo al confronto con realtà analoghe sulla mappa delle altre Fondazioni d’Italia – dal colore e dall'identità speciali.
La premessa nasce dunque dal riscontro di quanto innanzitutto messo a punto fra podio e Orchestra del San Carlo a partire dagli istanti ad altissima concentrazione attraverso i quali Valčuha ha staccato l'incipit delle Danze di Galánta, partitura di ampio e seducente respiro sinfonico scritta da Zoltán Kodály nei primi anni Trenta del Novecento sulle impressioni d’infanzia raccolte in un villaggio dell’allora Impero austro-ungarico, oggi in Slovacchia, ascoltandone le tradizioni musicali e, in special modo, le espressioni sonore legate al verbunkos, tipica danza popolare di quei luoghi.
Braccia fermissime tese verso i violoncelli, stavolta guidati dalla prima parte ospite Fabio Fausone, quindi con metrica perfetta il via al tema ritmato e avvolgente atto a scolpire con tempra sfavillante di tradizione magiara, viennese e balcanica - pertanto in linea ideale con il dna di Valčuha - l’Introduzione e le cinque danze a seguire. Porgendo poi rapido l’inciso melodico al primo corno e, in terza battuta, ai legni fino a lasciare, in assoluto primo piano, lo straordinario e lungo solo cesellato a punta di diamante dal primo clarinetto Luca Sartori, talento fra i migliori dell’organico lirico-sinfonico partenopeo e interprete di rara sensibilità, così come da sempre registrato e in tale contesto confermato da quel suo articolato e luminoso passaggio motivico che premiamo con lode per la bellezza del suono, il cuore immenso, le sfumature esemplari: bellissimo, sinuoso, esotico, malinconico, nobile e genuino ad un tempo. Il resto dell’ordito prende forma da lì, scattante e lucente dinanzi a un gesto sempre assai pulito e, per la prima volta, visibilmente felice, persino danzante, con violini primi e secondi precisi e ispiratissimi entro un controllo di grande efficacia seguito ad ogni minimo attacco, accento o equilibrio fra i diversi piani sonori. A seguire, con la seconda proposta in programma, l’ingresso di Salvatore Accardo, salutato da un meraviglioso abbraccio di applausi. Le prime battute del Concerto n. 2 per violino e orchestra di Béla Bartók, opera del 1939 imponente per dimensioni, tecnica trascendentale, tensioni e riflessioni sulla forma, spettano all’arpa di Viviana Desiderio, puntuale e sensibile come sempre. Battute sulle quali s’innesta il violinismo asciutto e tagliente del grande solista pronto a cogliere della partitura attraversata con polso, memoria e sotto un unico, sapiente sguardo, l’essenza più vera di quel canto luminoso e sottile, nato da una disposizione d’animo consapevolmente dolorosa – quella degli ultimi giorni di Bartók nella propria Ungheria, seguiti dall’esilio volontario e definitivo negli States – quanto stilisticamente con forza protesa verso la modernità. Una moltitudine di suoni e dinamiche cercate e raccolte, al fianco di un'Orchestra sempre calibratissima dal podio e con buona linea di percussioni (Matteo Modolo, Marco Pezzenati e Franco Cardaropoli), entro una visione di densa omogeneità, illuminata con tecnica infallibile e chiarezza assoluta quanto con taglio deciso e disincantato, a tratti raggelato, sul suo prezioso Guarneri del Gesù "Hart" del 1730. Il tutto, centrando e saldando il senso dei tre movimenti al pensiero stesso del compositore ungherese. Al termine della sua alta interpretazione, una prevedibile quanto meritatissima pioggia di applausi e un bis mozzafiato, sfidando a fuoco archetto e corde con l'ultimo dei Ventiquattro Capricci paganiniani in versione funambolica estrema.
In chiusura, infine, ancora un'interpretazione sorprendente: una Quarta Sinfonia di Beethoven da manuale ma inedita per plasticità e vigore, scolpita fra un attacco misterioso e in pianissimo, quasi "in fieri" e inteso quale mero colore, per poi aprirsi in forma magnifica spingendo ad archi tesi (tra le evidenti forze motrici, oltre alla spalla Gabriele Pieranunzi, si premiano nella sezione dei violini primi Erika Gyarfas, Pasquale Murino e Salvatore Lombardo) temi, ritmi, dinamiche e rilievi concertanti tra archi e fiati. Un grande gioco di contrasti, culminato fra la stretta scansione giambica impressa al terzo movimento e una rara esaltazione dei dettagli nella scintillante velocità del Finale.
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