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Paola De Simone

Un cammeo delicato e prezioso, quello applaudito l'altra sera al Teatro Sannazaro per l'Associazione Alessandro Scarlatti, interamente dedicato al confronto fra l'aria barocca italiana tardo rinascimentale o seicentesca e i songs d'Oltremanica d'epoca shakespeariana. Il tutto, entro un triangolo di suoni, intenzioni ed accenti in equilibrio assoluto quanto di tempra e sensibilità rare in special modo ascoltandone la singolare messa a fuoco dei rapporti fra significati e significanti interni allo stesso dettato poetico, quindi fra il testo e la musica.

Filo d'Arianna comune e in primo piano attraverso le angolazioni culturali molteplici, la tipologia di un canto dalle linee costruite ad arte nella pura semplicità dell'emissione a fronte delle complesse ornamentazioni, salda e al contempo morbida nelle messe di voce dalle sfumature molteplici come nei passaggi di registro, di viva plasticità drammatica nelle battute in arioso, di lucente intonazione all'acuto. A ben ritagliare il percorso in ascolto giocato su tanti, dolcissimi sospiri è stata Roberta Invernizzi, soprano italiano fra i migliori esempi di riferimento per il repertorio antico negli ultimi anni - la sua voce, oggi, appare leggermente mutata nella qualità della luce ma a vantaggio di un'ulteriore sapienza tecnico-espressiva - accanto ai bravissimi Franco Pavan (al liuto e alla tiorba) e Ugo Di Giovanni al liuto e arciliuto (nella foto d'apertura e, a seguire, negli scatti di Giancarlo De Luca). Fra le trame d'impronta arcaica della produzione inglese d'epoca elisabettiana a firma di Robert Johnson, del più celebre Dowland, del miliare Purcell o di anonimi su testi di Shakespeare, impagabile è stata ad esempio la sua piena valorizzazione nella tornitura fonica delle consonanti accanto al carico melodico concentrato in sede vocalica, nell'esatta centratura del ritmo e dello stile, nella mirabile intesa con Di Giovanni e Pavan che, da parte loro, sono risultati miracolosamente saldati nelle omofonie come nei contrasti in controcanto e contrappunto in un unico, sublime respiro.

E da tale, prima metà della serata, citiamo in particolare un song da pelle d'oca, il Music for a while di Henry Purcell, originalmente riletto da Roberta Invernizzi (se ne riporta sopra un estratto nell'occasione dal vivo unitamente all'omaggio fuori programma in chiusura) nutrendone le fibre con uno specialissimo innesto di tempra e linfa italiane su tinte e armonie prettamente britanniche, con particolare estensione e rinforzo del peculiare intervallo semitonale giustamente scelto e privilegiato nel solco della migliore prassi esecutiva. Una maturità interpretativa, quella della Invernizzi, riscontrata poi in misura crescente attraverso un repertorio italiano diviso fra i successivi Giulio Caccini (Dolcissimo sospiro, Torna, deh torna e quell'aria Dalla porta d'oriente così simile al Vi ricorda, o boschi ombrosi dell'Orfeo monteverdiano), Claudio Monteverdi (presente con ben cinque tasselli, Incoronazione di Poppea compresa) e Tarquinio Merula (Folle è ben che si crede), alternati con un paio di "intermezzi" prettamente strumentali di Kapsberger (Passacaglia e Arpeggiata).

In chiusura, un tripudio di applausi e un bellissimo bis - il madrigale Amarilli, mia bella di Giulio Caccini - dedicato, a 400 esatti dalla morte, alla memoria di un cantante-compositore della corte medicea, fondamentale per la monodia italiana alle origini dell'opera (con Peri, fu tra i membri della Camerata fiorentina e co-autore della prima Euridice) ma dimenticato da troppi. E dunque, nell'occasione, ricordato sul palco del Sannazaro dall'eccellente Pavan anche come gran pollice verde e quindi, oltre la musica, quale vero amante di cose belle.

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