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  • Paola De Simone

La scena non c'è, eppure tra le sole due voci e l'orchestra non salta neppure una minima maglia della grottesca e visionaria trama teatral-musicale. Nessun dettaglio, non un'immagine, brivido o scavo fra l'inconscio e il mistero del Castello di Barbablù, dramma lirico e opera unica di Béla Bartók, dell'anno 1911, grazie alla notevolissima versione da concerto (nelle foto di Luciano Romano) proposta con pieno quanto meritato successo al Teatro San Carlo di Napoli, per la prima volta in stagione sinfonica e dopo i quattro, precedenti allestimenti per la lirica datati 1951, 1972, 1997 e 2008. In abbinamento con la Sinfonia n. 8 di Dvořàk, a darvi forma e forza nell'occasione c'era dunque la sola Orchestra della Fondazione diretta dal proprio Direttore Musicale Juraj Valčuha, accanto a due voci soliste imponenti, il basso-baritono Gábor Bretz (Barbablù) e il soprano-mezzosoprano Violeta Urmana (Judit). Una dimensione sul tema dell'impenetrabilità del mistero e sull'antinomìa fra il maschile e il femminile, in tal caso totalmente interiorizzata e che, attraverso la lettura a briglie salde quanto ad elevato potenziale evocativo messa a segno dall'oggi quarantunenne Valčhua, ha perfettamente colto e restituito con chiarezza ancor più vivida rispetto a quanto percepito e visto in passato (pensiamo alla deludente edizione registica di Mario Monicelli diretta dal pur bravo Niksa Bareza, nel 1997) con tanto di scena in termini di altissima tensione fra simbolo ed espressione, sogno, paura e allucinazione inconscia. Una tensione che nell'opera è il frutto diretto di un intero coacervo di spunti, dettagli e stilemi filtrati a partire dalle fonti della fiaba di Perrault e le sue molteplici declinazioni fra il testo (fratelli Grimm, Sedaine, Meilhac-Halévy, Anatole France e in special modo l'Ariane et Barbe-bleu del belga Maeterlinck) e la musica (Grétry, Offenbach, Paul Dukas). Nonché tenendo in conto le peculiarità strutturali dell'atto unico particolarmente in voga a cavallo del secolo Ventesimo (Cavalleria rusticana, Pagliacci, Salome, Elektra, Ariadne auf Naxos, Eine florentinische Tragödie, Der Zwerg, i monodrammi di Schönberg, i titoli interni al trittico pucciniano, La vida breve, L’heure espagnole di Ravel nello stesso 1911) e fino agli equilibri da ricercare entro un taglio formale a metà strada tra l'opera e il dramma, numeri chiusi o aperti in declamato, Simbolismo e primo Espressionismo, modelli sonori d'Europa (Debussy, Richard Strauss, Bruckner, Mahler) e il fondamentale lavoro di ricerca etnomusicologica a taglio con la scansione trocaica del testo in ungherese di Béla Balázs, concepito per frames d'invenzione cinematografica.

Praticamente un mondo intero, entro il quale Balázs e Bartók, ben oltre i cardini di una barbe-bleu da intendersi quale emblema dell'uomo in cerca della felicità attraverso la sottomessa e cieca dedizione della donna (pur dinanzi a quesiti più volte ripetuti ma sempre lasciati senza risposta) e di un castello per la prima volta presente nel titolo quale proiezione della solitudine e soluzione ineludibile del disagio esistenziale, riversano ulteriori simbologie, numeriche in primis e a scansione temporale come le quattro mogli per le quattro stagioni e i quarti di giornata, le sette porte in coincidenza con i giorni della settimana. Per non parlare poi della valenza metateatrale e diciamo pure autobiografica (a parte la sospetta dedica alla prima moglie Márta Ziegler, si noti il rimbalzo fra i possessivi ai versi "Il sipario delle nostre ciglia si solleva. Dov’è la scena: fuori o dentro, uomini e donne? / il sipario delle mie ciglia è sollevato [...]") del Prologo affidato al Bardo e sempre alla voce di Bretz.

Premessa l'attenzione alla convergenza di una tale moltitudine di riferimenti e all'originalità del contenitore bartókiano sospeso in un Medioevo senza tempo, la disamina in ascolto ha con cura mirabile individuato e ben gestito i dettagli e gli equilibri di una tracciato drammaturgico-musicale costruito ad arco. Pertanto fonicamente narrando, fra un Prologo e un Epilogo dalle tenebre cupe e soffuse, simmetricamente a cornice in Fa diesis, tutto quello che Judit vede aprendo di volta in volta le sette camere segrete, quasi tutte macchiate di sangue (gli orrori nella sala della tortura, i clangori in quella delle armi, i bagliori dei gioielli nella sala del tesoro, l'onirica natura in Mi bemolle del giardino, la magnificenza del regno con relativo climax sonoro, il lago di lacrime sospeso tra fiaba e sogno, il vortice dinamico per la sala con le tre mogli non morte, ma viventi nel ricordo, nella quale sarà presto archiviata anche l'ultima sposa), sulle rispettive piste modo-tonali e un incastro di soluzioni tecnico-timbriche da cui sembra affiorare persino il qui mancante colore visivo dei raggi di luce (metafore di verità illusorie) propri della versione scenica.

Mirabile pertanto, innanzitutto, la direzione dal podio e più che lodevole la risposta precisa di tutti gli elementi dell'Orchestra in campo, a partire dagli archi intonati e coesi (ottimo il lavoro di violoncelli e contrabbassi rispettivamente capitanati da Luca Signorini e da Ermanno Calzolari ma notevoli anche i tremoli velocissimi dei violini) alle precise e appropriate emissioni dei fiati, con ottoni in buona forma (in special modo i corni guidati da Francesco Mattioli, le trombe da Giuseppe Cascone, i tromboni da Gianluca Camilli), legni intensi e puntuali (si segnalano per la bellezza del suono e la tornitura dei relativi interventi il primo oboe Hernan Garreffa, il primo clarinetto Luca Sartori, il primo e secondo fagotto, rispettivamente, Mauro Russo e Giuseppe Settembrino) accanto agli esiti efficaci dell'intera linea delle percussioni e alle sempre eccellenti arpiste Antonella Valenti e Viviana Desiderio. Su tale, fondamentale base, poggiavano poi le due grandi voci, ideali per gamma timbrico-espressiva e ampiezza d'estensione. Il Barbablù scolpito da Gábor Bretz ha sfoderato un metallo risonante e profondo, ricco di armonici e ben fermo nella sua possente statura psicologica, incline a valorizzare lessemi, tinte ed accenti. Dall'altra, il soprano-mezzosoprano Violeta Urmana è stata una Judit duttile alle continue impennate emotive, intensamente lirica e drammatica, morbida persino negli urli all'acuto, sonora per lo più nelle tessiture gravi e centrali.

A complemento di serata e a conferma di quanto Juraj Valčuha sia ad oggi uno dei migliori interpreti del repertorio sinfonico mitteleuropeo fra i due secoli, si citano gli esiti della successiva Sinfonia n. 8 in Sol maggiore op. 88 scritta a Praga nel 1889 da Antonín Dvořàk e per la prima volta eseguita nel 1890, al Teatro Nazionale della capitale boema. Il respiro da leggenda e la natura danubiana dei temi nei diversi, quattro movimenti a tiro fra le pieghe e le tinte dell'anima slava, hanno combaciato a meraviglia con la sensibilità di un interprete nato a Bratislava, al confine fra le terre d'Austria e d'Ungheria, così come leggibile attraverso una direzione che, accanto alla solidità metrico-ritmica, ha saputo come trattare al meglio quella materia sonora generata a partire dal canto dolcemente malinconico di clarinetti e fagotti, corni e violoncelli. Ossia, porgendo quasi in sospensione frasi ed incisi, calcando gli accenti, gonfiando le dinamiche, trasformando con delicatezza infinita un genuino Ländler nel sogno raffinato di un Valzer. Per poi spingersi in avanti, quasi anticipando Prokof'ev, con il ritmo e i colori tirati fuori dalla vivace e variata danza finale.

Al termine di entrambe le prove, caldissimi e convinti gli applausi del pubblico.

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