Di Bohème - e dunque di Mimì - in anni recenti ne abbiamo viste e ascoltate tante, a Napoli e non solo: molte ancora acerbe, in gran parte dalle vocine aspre o dagli eccessi lirico-drammatici. Crescenti, calanti, anonime o disomogenee. E, in ogni caso, fuori stile.
Ecco perché, sin dalle sue prime battute a dialogo e dalla perfetta tornitura delle articolazioni per gradi congiunti, già in asse con quella prima, piccola grande aria "Sì, mi chiamano Mimì" scolpita da Eleonora Buratto (in apertura, nella foto di Luciano Romano) con tecnica infallibile, intonazione e timbro esemplari fra messe di voce e filati, pause, proiezione e sostegno ad ampia arcata, densità melodica e duttile temperatura espressiva, non abbiamo avuto dubbi. Nessun dubbio nell'individuarla quale nuova e degna erede del ruolo dopo le ormai storiche interpretazioni della divina Tebaldi, di Renata Scotto e di Mirella Freni, stando a quanto scolpito dalla sua voce sovrana per tre recite su sei nell'allestimento palermitano firmato da Mario Pontiggia in scena con successo in queste sere al Teatro San Carlo di Napoli (a seguire sempre nelle foto di Luciano Romano). Allestimento con il quale il soprano mantovano in brillante carriera internazionale presentava appunto per la prima volta all'Italia intera, dopo i recenti successi raccolti a Barcellona, Zurigo e ad Amsterdam, la sua Mimì.
Una voce bella e importante, quella della Buratto, partita forgiandosi attraverso il repertorio lirico-leggero e, oggi, ben matura per l'Olimpo del lirico puro sfoderando una pasta timbrica morbida e piena, calda e dorata come un'ambra, volume, cura estrema del fraseggio, acuti affilati e lucenti, così come udito nel primo finale d'atto con un Do sopra il pentagramma puro come il cristallo, perdendosi (in coppia con un tenore non parimenti perfetto) verso le quinte.
Il tutto, accanto a una rara autenticità melodica in ogni grado della sua ampia estensione e alla luce di un sempre assai sapiente rapporto con le regole dettate dal testo sia poetico-drammatico che musicale puntualmente valorizzandone gli accenti e i respiri, la sintassi, il senso, le emozioni molteplici.
A premiarne infatti l'arte evidente e il fenomenale talento, l'esplosione di applausi tributata la sera della prima e a scena aperta al termine della sua aria d'esordio in un Teatro stracolmo in ogni ordine di posti, fra palchi e platea, con tanti giovani e pure competenti che dal fondo della sala l'hanno subito ripagata urlando a squarciagola ripetuti ed entusiastici “brava!”.
Una Mimì, la sua, timida e felice nei primi due quadri, vocalmente sempre ben netta e ritagliata nel canto come nella conversazione in assieme, intensa e consapevole alla Barriera d'Enfer, di tragicità delicata e sincera nel finale in cui scioglie quel commovente canto di morte ("Sono andati? Fingevo di dormire") meravigliosamente proiettato fra colpi di tosse, mille nostalgie e ricordi, fra la prima e ultima grande dichiarazione d'amore per il suo Rodolfo. E, ancora, intensamente dolcissima nell'abbandonare la giovinezza e la vita.
Una vera gemma che a brillare però, entro una produzione dal cast qualitativamente scalibrato, purtroppo era da sola. Il Rodolfo del tenore francese Jean-François Borras, pur scelto dal prestigioso Metropolitan di New York per lo stesso ruolo, non ci è parso partner ideale intanto per la tinta troppo chiara della sua voce di propensione eroica primottocentesca. Evidente infatti la fibra sottile, in special modo nel parlato, culminato nel naturalistico, straziante "Che vuol dire quell'andare e venire... / quel guardarmi così?!". Una fibra che, a fronte della moderna e continuamente cangiante scrittura pucciniana, ha svelato non poche incertezze vibrando in fascia centrale (stimbrato il suo attacco al duetto "O soave fanciulla") e nelle zone di passaggio sia pur sfoderando, viceversa, bello slancio nei molteplici acuti (due Si bemolle e ben nove La) - comunque troppo stretti per lo stile in campo - e non pochi gli scambi felici al terzo quadro o in soffitta con i suoi amici bohèmiens. Conoscendone invece le potenzialità, il Marcello del sempre fin qui apprezzato baritono Mario Cassi, nell'occasione, non ci è parso lavorato al meglio dati gli esiti di un'eccessiva uniformità espressiva e canora mentre assai deludente - con tutti i soprani che ci sono e in considerazione dell'unico numero sul quale concentrarsi - è stata la prova della Musetta di Francesca Dotto, nel suo bel Valzer apparsa scenicamente spigliata ma vocalmente di tinta quasi da "Adriana" e difatti sul terreno leggero avvertita solo negli strilli spinti all'acuto - di stile, per giunta, datati - e purtroppo per nulla sentita nella zona mediana tanto nelle parole quanto nella musica. Fra il gruppo degli amici si loda invece il basso Fabrizio Beggi (già notato nelle Nozze mozartiane) per un Colline filosofo finalmente giovane fisicamente e timbricamente, ben saldo nel volume come ricco di armonici e giusto da maturare nella qualità dei suoni nella zona più profonda del suo registro. Allo Schaunard del baritono orientale Leon Kim, pure dotato di bel suono, è sembrato sfuggire invece del tutto il senso - oltre che l'appiombo metrico - del testo, quindi nella norma le figure di contorno quali Matteo Ferrara nel doppio ruolo di Benoît / Alcindoro, Stefano Pisani per il folcloristico venditore di giocattoli Parpignol, Bruno Iacullo (sergente dei doganieri), Alessandro Lerro (doganiere) e Alessandro Lualdi (venditore ambulante).
Quanto all'allestimento, senza infamia e senza lode il contenitore ripreso dal Massimo di Palermo a firma di Mario Pontiggia con scene e costumi di Francesco Zito più luci di Bruno Ciulli. Quadri esterni in una soffitta pensata probabilmente contaminando un loft della Milano postindustriale con travi-traliccio di rinvio alla parigina Tour Eiffel, Quartiere Latino un po' piatto (pensiamo alla supercinematografica regia di Zeffirelli proposta neanche troppo tempo fa) con cassa armonica centrale per il Cafè Momus e "suffragette" in posizione centrale per ostentarne le insegne sui rispettivi cartelli, Barriera d'Enfer assai suggestiva e dunque scorcio visivo migliore con ponte parimenti ispirata alla struttura ferrea emblema della capitale francese. Restano invece un mistero le ragioni degli abiti primaverili e benestanti sfoggiati al quarto quadro dai bohèmiens intorno alla morente Mimì, così come dell'ampia vetrata spalancata sullo sfondo se poi è necessario un manicotto di pelliccia per dare un po' di calore alle mani sempre più gelide della protagonista.
A garantire fluidità e coesione all'insieme sonoro, infine, la direzione di Stefano Ranzani, alquanto veloce nella prima metà del quadro d'apertura ma in ragionevole corrispondenza con i ritmi spensierati e goliardici dei quattro giovani artisti scapigliati. Nessun dettaglio, in buca, salta infatti nell'accompagnare le prime due arie dei protagonisti e di lì a seguire per gli altri momenti lirici, seppur attraverso una lettura semplice e diciamo senz'altro a misura delle "piccole cose" pucciniane, non priva di ampie dinamiche (nella Marcia francese in chiusura al Quartiere Latino o nei picchi drammatici) per quanto esente dai grandi contrasti a fuoco nella prassi tradizionale. Ben legati risultano i frammenti motivici e le reminiscenze, giusto il rilievo ai timbri puri e agli impasti, ben saldate le sezioni degli archi guidati dalla valente spalla Gabriele Pieranunzi, con buona resa degli ottoni tutti (capitanati dalle ottime prime parti Ricardo Serrano per i corni, Giuseppe Cascone per le trombe e Gianluca Camilli per i tromboni), dei legni (in special modo i clarinetti) più lode per l'arpa (Antonella Valenti), il primo flauto (Bernard Labiausse) e per il primo violoncello ospite (Pietro Nappi). Per la velocità qualche voce ne soffre ma il Coro misto della Fondazione curato da Marco Faelli, sostanzialmente, resta compatto e, in special modo, si premia per precisione e intonazione il Coro di voci bianche del San Carlo preparato da Stefania Rinaldi. Domani, martedì 16 alle ore 20, ultima replica con la quasi totalità del cast della "prima" ma con la Mimì di Elena Mosuc.
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