Dall’era degli zar all’impeto rivoluzionario e al post-comunismo, tra fuochi eversivi ed ironia straniante, disarmante solitudine e consapevole rassegnazione. Fino agli accenti dolorosi per la morte morale di una Russia narrata e rivissuta a parole, per incisi, secondo angolazioni storiche diverse. Ma, soprattutto, una Russia scolpita a quattro archi, con forza autentica e immensa, lungo un filo ad altissima tensione, fatto di suoni e di silenzi.
A ricordare in cento minuti i cento anni dalla Rivoluzione bolscevica, una singolare formula mista sullo stampo del melologo creata e interpretata, fra parole in radiocronaca e musica allo stato puro con titolo comune "La Russia, forse non esiste”, dal giornalista Stefano Valanzuolo e dal Quartetto Savinio (nelle foto), ospiti applauditissimi del cartellone concertistico proposto quest'anno dall’Associazione Alessandro Scarlatti al Teatro Sannazaro.
Un “montaggio” fitto di echi, citazioni letterarie, teatrali o poetiche celebri accanto a reinvenzioni storiche in quattro "stazioni" (Uno starnuto vi seppellirà/Scene dalla Santa Madre Russia; Arrivano i vostri/Fischia il vento, infuria la bufera; Elogio della palude/Ovvero, il giardiniere d’acciaio; C’era una volta l’URSS/Vite di seconda mano) più epilogo. Obiettivo, rivivere e riflettere, comprendere, ricordare la Russia. O, meglio, la sua anima, le sue emozioni e sensazioni. Un resoconto per immagini-collage di un popolo attraverso le epoche che Valanzuolo ha ideato e cucito secondo la tecnica del "blob" televisivo, filtrando con dizione velocissima quattro momenti della storia russa “prima, durante e dopo” la centenaria Rivoluzione (dagli zar al post-comunismo), in alternanza restituiti in musica e ad arte da una delle più serie e interessanti formazioni cameristiche italiane - per nostro orgoglio con targa partenopea - ideale tanto per il Classicismo di Mozart e Beethoven quanto, questo appunto il caso, per il repertorio delle Scuole nazionali e fino ai linguaggi estremi della migliore Contemporanea. L’itinerario d’ascolto, nell’occasione, proponeva in sintonia con i momenti storici prescelti il Borodin del Quartetto in Re maggiore n. 2, i Tre pezzi per quartetto d’archi di Stravinskij, naturalmente una pagina emblematica quale il Quartetto n. 8 in do minore op. 110 di Šostakovič, sorta di sintesi della scrittura dell’autore e testamento spirituale con dedica alle vittime di ogni dittatura e guerra. Per poi toccare il secolo Ventunesimo con uno sguardo da lontano sulla patria martoriata a firma della compositrice oggi ottantaseienne Sofija Gubajdulina con Reflections on theme B-A-C-H, modernissima meditazione sull’Arte della fuga bachiana e, nello specifico, sul Contapunctus XVIII sospeso alla battuta 239 in ipotetica coincidenza con la morte del più alto padre del Barocco tedesco. A parte la serrata, straordinaria intesa fra i quattro archi del Savinio (Alberto Maria Ruta e Rossella Bertucci rispettivamente impeccabili al violino primo e secondo, Francesco Solombrino alla viola e il sempre ottimo Lorenzo Ceriani al violoncello) merita particolare attenzione la rara definizione stilistico-espressiva riscontrata ad ogni nota nelle diverse partiture proposte, con climax mozzafiato in Šostakovič - autore perfettamente metabolizzato e ormai nelle vene del QS - per un impatto assoluto, graffiante, sarcastico, tesissimo fra archi vibranti a pasta acida, pause “di coscienza” dense come il piombo, un dolore desolante, sciolto toccando il fondo per poi risalire in rarefazioni prossime al sublime.
Ad epilogo, la lama del futurismo sferzante di Majakovskij declamato da Stefano Valanzuolo direttamente attingendo al copione affidato all’Oratore nella commedia teatrale La cimice (Klop, nella lingua originale), sulle musiche neanche a dirlo di Šostakovič, nell’anno 1929: “Pronto! Mi sentite? Qui parla il presidente dell'istituto delle resurrezioni umane. La questione è già stata resa nota attraverso i telegrammi, già discussa, semplice e chiara. All'angolo della sessantaduesima strada e della diciassettesima prospettiva della vecchia Tambov, una squadra di operai ha scoperto, a sette metri sottoterra, una cantina piena di ghiaccio. Attraverso il ghiaccio traspare una figura umana congelata. L'istituto considera possibile la resurrezione di un individuo rimasto congelato cinquant'anni fa. Ogni contrasto di pareri va appianato. L'istituto ritiene che la vita di ogni operaio debba essere sfruttata fino all'ultimo secondo. La radiografia ha rivelato sulle mani dell'individuo dei calli che cinquant'anni fa erano una caratteristica del lavoratore. Ricordiamo che dopo le guerre che hanno sconvolto il mondo, dopo le guerre civili che hanno portato alla Federazione mondiale, in seguito al decreto del 7 novembre 1965, la vita umana è inviolabile. Porto a vostra conoscenza le obiezioni della centrale epidemiologica che teme il pericolo di una diffusione dei batteri di cui erano pieni gli antichi abitanti della vecchia Russia. Pienamente consapevole delle mie responsabilità, passo alla risoluzione. Compagni, ricordate, ricordate e ricordate una volta ancora: Noi votiamo per la vita umana! In nome delle ricerche sui metodi di lavoro dell'umanità lavoratrice, in nome di un oggettivo studio comparato dei costumi, esigiamo la resurrezione”. E da quel lessema astratto, a folgorante sigla onomatopeica, la chiusa aforistica sui verticali glissandi del Savinio.
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