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  • Paola De Simone

Sono otto le giovani voci barocche, fra soprani, mezzosoprani (si citano almeno le brave Ileana Passerini e Sara De Flaviis), un contraltista più un'uditrice dall'Italia e non solo che, in occasione della masterclass organizzata in questi giorni (23-25 novembre) nella Chiesa di Santa Caterina da Siena a Napoli dalla Fondazione Pietà de' Turchini con la preziosa collaborazione del bravissimo Pierfrancesco Borrelli (al centro nella foto di gruppo e in basso) al clavicembalo, hanno avuto il privilegio di essere ascoltate e curate dalla nostra più alta interprete del repertorio vocale antico. Ossia, Sara Mingardo (nella foto d'apertura e a seguire), contralto veneziano dall'estensione e dalla sensibilità espressiva uniche, interprete magistrale dei maggiori titoli teatrali delle origini, monteverdiani in primis, di arie, duetti da camera e di capolavori sacri della letteratura del Sei e Settecento. Ma anche di un repertorio ben più ampio, affrontato dopo la formazione in Canto avvenuta con il maestro Franco Ghitti al Conservatorio della sua città, il "Benedetto Marcello" nello splendido Palazzo Pisani, quindi coronata dalla vittoria del "Toti Dal Monte" e dal Premio Giulietta Simionato al 23º Concorso di Vienna. Un repertorio attento ma articolato, messo a punto nel corso di una meravigliosa carriera internazionale iniziata nel 1980: fra i ruoli, si citano Andronico nel Tamerlano di Händel, Miss Quickly nel Falstaff di Verdi, Rosina nel Barbiere di Siviglia rossiniano e i ruoli da protagonista nella Carmen di Bizet o ancora, con Händel, in Giulio Cesare, Riccardo primo, re d'Inghilterra e Rinaldo. La sua registrazione di Anna in Les Troyens di Hector Berlioz ha inoltre vinto il Gramophone Award, il Grammy Award per il miglior disco Opera e il Grammy Award per il miglior album di musica classica nel 2002. Ospite delle principali istituzioni musicali italiane ed internazionali, è una delle rarissime voci di autentico contralto della scena musicale odierna. Ha collaborato e collabora stabilmente con i migliori direttori d’orchestra dei nostri giorni (Claudio Abbado, Ivor Bolton, Riccardo Chailly, Myung Whun-Chung, Colin Davis, John Eliot Gardiner, Emmanuelle Haïm, Marc Minkowski, Riccardo Muti, Roger Norrington, Trevor Pinnock, Maurizio Pollini, Christophe Rousset, Jordi Savall, Peter Schreier, Jeffrey Tate), al fianco delle principali orchestre internazionali (Berliner Philharmoniker, London Symphony Orchestra, Boston Symphony Orchestra, Orchestre National de France, Les Musiciens du Louvre, Monteverdi Choir & Orchestra, Les Talens Lyriques, Academia Montis Regalis), nei contesti musicali internazionali di maggiore prestigio (Musikfesten a Brema, Accademia Santa Cecilia, Festival Anima Mundi di Pisa, Barbican Hall di Londra, Salle Pleyel di Parigi, “die Singel” di Anversa, Festival di Aix-en-Provence, Bregenzer Festspiele, Carnegie Hall di New York, Festival de Beaune, La Monnaie/De Munt, Gran Teatre del Liceu, Montreux-Vevey Festival, Opera di Losanna, Opéra de Montpellier, Festival di Schwetzingen, Semperoper di Dresda, Théâtre des Champs-Elysées). Una voce che, nell'anno 2009, l’Associazione dei Critici Musicali Italiani ha voluto premiare conferendole il Premio Abbiati.

Inoltre protagonista accanto a scrittori e ad altri artisti ospitati nella Chiesa di San Rocco a Chiaia dalla stessa Fondazione diretta da Marco Rossi e Federica Castaldo in apertura della rassegna "Il suono della parola", abbiamo incontrato Sara Mingardo in occasione del seminario di questi giorni.

Dall'alto di una così luminosa carriera e dinanzi alle nuove, giovani voci per il Barocco, quali le regole, ferma naturalmente restando l'importanza dell'intonazione, della tecnica, della dizione e senza comunque perdere mai di vista la bellezza del colore?

«Quanto più indietro siamo nel tempo, vale a dire nel canto del Seicento, l'intonazione rappresenta un dato prioritario. Infatti se nel repertorio operistico è possibile ammettere che qualche imprecisione possa - anche se non dovrebbe - scappare, nel canto non vibrato l'assenza d'intonazione nei suoni fermi, pensiamo appunto a Monteverdi, ai brani di Barbara Strozzi, può portare le voci a sembrare quasi delle navi. La tecnica e la dizione, ugualmente, costituiscono requisiti fondamentali, cose senza le quali il canto barocco proprio non si può fare. Ed è tra l'altro questa la parte più difficile da spiegare ai ragazzi perché, stando all'immediatezza della nostra arte, un cantante apre bocca e canta. E questo non va bene. Andrà bene più avanti, quando cioè il volume è necessario per far fronte a un'intera orchestra, a una scena da riempire, dinanzi a un pubblico».

Quanto contano le scelte del repertorio?

«Sul piano lavorativo la scelta del repertorio è fondamentale. Se si sbaglia quello, si cambia praticamente vita. Ossia: se si interpretano arie non idonee, si può non fare il cantante nella vita; se si hanno meno qualità, ma si indovinano le arie, si può fare il cantante ed anche con un discreto successo».

Quanto si rivela utile il Barocco per educare la voce?

«Il repertorio antico è assolutamente indispensabile per una buona educazione. Della mia generazione sono tante le voci passate per il Barocco, e si sente. Poi ce ne sono altre che non lo frequentano per niente, ma ritengo sia un po' come per lo strumento: se un violinista non ha mai suonato un Concerto grosso di Corelli o un Concerto di Vivaldi è come se mancasse un pezzo. Non è un caso che i pianisti studino tanto Bach, anche se un domani sceglieranno di essere interpreti magari prevalentemente romantici, di Chopin o di Liszt. In effetti, siamo solo noi cantanti, e purtroppo qui in Italia, ad avere due classi separate, una di canto lirico, l'altra di canto barocco laddove, nel resto del mondo, si studia il repertorio per intero. Meglio di niente, comunque...».

Le nuove generazioni sembrerebbero, in ogni caso, dedicare maggiore attenzione al repertorio più antico...

«Come qualità, fortunatamente, l'Italia resta un distributore abbastanza naturale e costante. Il problema è piuttosto che, ai giovani, manca un metodo di studio: vanno un po' a caso, lavorano la tecnica direttamente sulle arie, e questo non va bene. È pur vero che tante cose si risolvono e si superano su queste, ma i problemi meccanici dovrebbero essere studiati esattamente come fanno gli strumentisti. La voce è, tutto sommato, uno strumento che bisogna imparare a suonare. Anzi, nel nostro caso, la responsabilità è superiore perché tutto è dentro di noi. Le agilità, la lunghezza delle frasi, il fiato sono requisiti che si sviluppano innanzitutto nei vocalizzi. I ragazzi tendono invece a farne due o tre giusto per scaldar la voce, poi cantano le arie pensando di poter risolvere lì i problemi di passaggi, note gravi e tutto il resto. Invece non sanno dove mettere le mani, con risultati da manicomio...».

Nelle programmazioni artistiche, teatrali innanzitutto, perché manca il Barocco?

«Perché la gente non è abituata ad ascoltarlo. Quindi, il direttore artistico, pensa bene di evitarlo.

La verità è che, in Italia, il settore interessa assai poco. La musica è ancora considerata un hobby, non un lavoro. Ad esempio, la settimana scorsa, ho terminato le recite del Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi, cantando il ruolo di Penelope ad Amburgo. Grande città tedesca, ma con un teatro che non è certo il Metropolitan di New York. Eppure, è un palcoscenico che annovera ben 38 produzioni d'opera all'anno: il che significa che la gente è abituata ad andare a teatro. Qui invece non si va se non si fanno Traviata e Bohème: per carità, opere bellissime, ma Verdi e Puccini hanno spazzato via tutto il resto. Diciamo che si potrebbe e dovrebbe far tutto, anche se, in parte, ritengo sia stata colpa dello stesso cantante barocco, talvolta un po' troppo snob e intellettuale, se il pubblico ci liquida genericamente come noiosi».

Un problema di produzione e circuitazione tutto italiano, dunque, che però parte e in parallelo coinvolge anche i percorsi di formazione, in special modo pensando alle scelte di reclutamento sulla base delle graduatorie d'Istituto nei nostri Conservatori, dove il docente può addirittura cambiare ogni anno.

«Il folle che ha inventato, ossia deciso di togliere i corsi decennali del vecchio ordinamento nei Conservatori, per trasformarli in Università e dividerne gli studi fra i diversi gradi delle scuole, non poteva fare niente di peggio. Perché così, pure in presenza di un grande talento, ci si troverà disorientati per il cambio continuo del maestro: uno alle elementari se pure c'è, uno alle medie dove ti costringono a suonare un "robbo" simile al flauto, uno al liceo musicale, uno al Conservatorio per l'alta formazione artistica e uno, senz'altro, da pagare in privato. Il problema riguarda in special modo l'età: per un mezzosoprano entrare al Triennio a diciotto anni è ancora possibile ma, per un soprano, è ormai troppo tardi. Le voci femminili, soprattutto, perdono tempo prezioso. Io ad esempio sono entrata a dieci anni come pianista, poi a quindici e mezzo già studiavo canto. Oggi invece le ragazze arrivano che hanno 20, 22 anni per poi uscire dalle nostre Istituzioni dopo 5 anni di studio, grosso modo a 28, senza aver mai neanche fatto un'audizione. Chi ha fatto questo disastro è perché non ha capito niente in una nazione dove la musica classica, pur avendo alle spalle una tradizione unica al mondo, è considerata un semplice passatempo. Ecco perché poi i giovani preferiscono andare in un programma di talenti in tv: sei settimane e si diventa famosi. Ed ecco perché poi tutti sanno chi è Andrea Bocelli o cos'è il Volo ma nessuno conosce le vere voci della lirica o i più grandi talenti del Barocco. È tutto molto triste. A Londra, per esempio, nell'ora di musica i bambini giocano con le diverse, intere famiglie di strumenti, quelli veri, dai fiati agli archi o alle percussioni. Di qui si comprende come mai il Coro della London Symphony sia, poi, un Coro di amatori. Perché fa parte della loro vita e della loro cultura».

Tornando in chiusura ai segreti del canto più nobile, quale il consiglio per un Barocco ideale?

«Sia i docenti che gli allievi tendono a concentrarsi totalmente sull'aria, che rappresenta il vero pezzo di bravura. In realtà bisogna prestare massima attenzione al recitativo che la precede, essendone la chiave di tutto».

Può in tal senso il Lamento della ninfa di Claudio Monteverdi - canzonetta su testo del Rinuccini dall'ottavo Libro di madrigali, della quale lei ci ha lasciato su cd un'interpretazione esemplare con il Concerto Italiano diretto da Rinaldo Alessandrini e il violoncello di Luigi Piovano - essere vista come pagina-cardine in virtù della sperimentale interazione fra i piani narrativo e lirico-drammatico, polifonico e monodico entro uno spettro straordinario di espressioni e deragliamenti emotivo-tonali sulla fissità marmorea del tetracordo minore discendente?

«Senz'altro. Nel Lamento della ninfa c'è davvero tutto, ed è lì che si comprende quanto Monteverdi sia stato un compositore immenso e assolutamente geniale. Forse il più grande di ogni tempo».

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