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Paola De Simone​ ​​ ​

Un cambio di direzione artistica può portare all'ascolto, significativamente, non solo aria progettuale nuova o comunque di diverso segno ma, anche, figure di artisti per anni assenti dai principali circuiti concertistici partenopei. È il caso di Francesco Libetta, pianista italiano del Sud raffinato e interessantissimo, ascoltato anni fa e poi mai più. Quindi di nuovo, e finalmente, l'altra sera al Teatro Sannazaro in occasione del secondo, applaudito appuntamento (nelle foto) in locandina per l'Associazione Alessandro Scarlatti firmata da Tommaso Rossi. Uno stile prettamente pianistico e autenticamente romantico nel senso più alto del termine, il suo: pulitissimo e scattante, veloce ma dalle sonorità piene, sempre ben definite, di sensibilità poetica e intensa, cantabile e al contempo virtuoso. E con la marcia in più del direttore-compositore, attento a bilanciare i ruoli e le sonorità fra i motivi derivati dal canto e un'armonia di sintesi di un intero tessuto orchestrale. Il tutto con una tecnica e un tocco riconoscibile fra mille, così come la costruzione dei suoi programmi, ricercati, d'impatto, intelligenti.

Al centro del tracciato d'ascolto, proposto in un Sannazaro addobbato per la prosa delle altre sere con le luminarie spente e un po' malinconiche della Festa di Piedigrotta, l'idea della trasfigurazione tematica o formale, di genere e di stile, iniziando da una rarità in bilico fra nitore neoclassico e gusto ottocentesco francese come il Caprice sur les airs de ballet d'Alceste de Gluck composto da Saint-Saëns nel 1867. Brillante, moderna e dall'esotismo sensuale, a seguire, la diversissima ma non meno peculiare Sonatina super Carmen scritta da Busoni nell'anno 1920 ispirandosi al capolavoro di Bizet, ulteriore indagine sui rapporti fra tasti e melos da palcoscenico, vecchio e nuovo stile pianistico. E parimenti notevolissima la vertigine ternaria in visione alterata, così come filtrata nella lente deformante da Ravel, con La Valse: danza sublimata e nostalgica di un tempo dagli ideali lontani e ormai perduti. Metamorfosi "doc", poi, quelle di Liszt, da Libetta meravigliosamente scolpite entro il fuoco vivo della sostanza verdiana e in esatto equilibrio fra slancio tecnico e fonte melodrammatica, tanto nella parafrasi da concerto sul Miserere dall'Atto IV del Trovatore che sul Quartetto "Bella figlia dell'amore" dal Rigoletto offerto al termine come primo dei due omaggi (l'altro, di stile minimal, una declinazione da Battiato di sua stessa composizione) fuori programma. Poi, quasi come a indicare a ritroso il punto di partenza di tante successive trasfigurazioni strutturali e sonore, ha chiuso il suo particolarissimo percorso con la Sonata op. 110 di Beethoven, un modello di marmorea bellezza per la luce dei profili, la forza degli affondi e la consapevolezza di una forma in fuga da se stessa.

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