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  • Paola De Simone

Parimenti scolpiti fra buca e palcoscenico con esatto rigore e tinte sonore di fuoco, esaltandone la drammaticità sanguigna quanto la rara sensibilità dei dettagli poetici, nonché saldandone, attraverso l'elemento "luce" in rossi o blu fondenti, la remota dimensione storica e la visionaria attualità.

Con uno stacco di appena ventiquattr'ore, e dunque giocati praticamente a fronte, trionfano sul palcoscenico del Lirico napoletano per un'imponente apertura del San Carlo Opera Festival in quarta edizione, due grandi e opposti titoli del più celebre repertorio lirico europeo, di Francia il primo con la Carmen di Bizet e d'Italia il secondo con il Trovatore di Verdi. Entrambi in recente ripresa delle edizioni rispettivamente firmate per Napoli dal raffinato fantasista Daniele Finzi Pasca e dall'ottimo Michal Znaniecki, entrambi applauditissimi (giusto con qualche sonoro booh andato a colpire, ora come allora nel dicembre 2015, il drammaturgo inventore del "teatro della carezza") per la cifra estetica notevolissima e, innanzitutto, per gli esiti musicali complessivamente importanti, se non addirittura sorprendenti grazie a quanto messo ad esempio a segno in Trovatore da un direttore "musicista vero" e "verdiano" puro quale il quarantaquattrenne spagnolo di Barcellona Josep Caballé Domenech, al suo folgorante debutto partenopeo (nelle rispettive foto di Luciano Romano per Carmen e di Francesco Squeglia per Il trovatore).

In apertura la Carmen (in scena fino a domenica 16) che, rispetto alla première di due anni fa in presenza del presidente della Repubblica e di gran parte dello Stato maggiore (si veda la recensione della Quinta giusta in data 14 dicembre 2015), ha cambiato bacchetta e tutte le voci principali. Sul podio dell'Orchestra della Fondazione in queste sere c'è infatti non Mehta ma il nuovo direttore musicale della compagine strumentale sancarliana, lo slovacco quarantenne Juraj Valčuha e così, nei ruoli di punta, cantano la Carmen di Clémentine Margaine (in luogo della rigida Marìa José Montiel), l'Escamillo del possente e affascinante Erwin Schrott (anziché Kostas Smoriginas), il Don José di Stefano Secco (nel 2015 Brian Jagde) e, nel ruolo della dolce Micaëla, Jessica Nuccio laddove Eleonora Buratto solitaria trionfò su tutti.

Riguardando con attenzione e stavolta da miglior posto lo spettacolo a maggiore ragione si dissente - se non per le effettivamente brutte barre di luce al neon e i fastidiosi riflettori sparati negli occhi verso la platea (utilizzati pure la sera a seguire nel finale del Trovatore) - dai fischi lanciati dal pubblico contro Finzi Pasca. La sua Carmen è altra cosa: bella, stilizzata, raffinata, carica di significati, minimal, moderna. E, giustamente, attuale, impiantata com'è sul cardine ad oggi drammaticissimo del femminicidio: dunque, visione interna più che esterna dei personaggi e della stessa azione in scena, fragile e universale. Visivamente, inoltre, dalla definizione pulita quanto di massimo impatto in virtù delle soluzioni ideate dallo scenografo Hugo Gargiulo, delle invenzioni luministiche dello stesso Finzi Pasca con Alexis Bowles, degli incantevoli costumi di Giovanna Buzzi e delle sapienti coreografie di Maria Bonzanigo, assistente alla regia. Di qui il quadro per il primo Atto, di tinta calda dal rosso all'arancio, con una Siviglia evocata dalle luminarie ad arco, emblema al contempo di porta d'ingresso e festa per tante altre piazze del Sud, Napoli compresa. Quindi l'Atto II, tra il bianco delle danzatrici dalle grandi e candide ali sbandierate a emblema di libertà sullo sfondo di traforate architetture moresche color caffè. E, a seguire per il terzo quadro, niente rocce e desolati rifugi notturni ma una sola grande luna dai tanti led a sbalzo sull'intensa luce blu dello sfondo su cui si lascia brillare, quasi in sospensione, la magnifica aria di Micaëla "Je dis que rienne m'épouvante".

Infine l'emozionante e al contempo elegante parata che porta in trionfo il torero Escamillo in drammatica simultanea con l'efferata uccisione di Carmen.

Sul piano musicale, in vetta al successo, abbiamo stavolta tre parimerito: in primis, la direzione musicale di Juraj Valčuha, tagliente, rigorosa, vibrante, esatta nella scelta di metri e colori quanto sempre ben tesa in un unico e saldo arco drammatico, dalla prima all'ultima nota; fenomenali per dizione, scatto ritmico e sensibilità musicale, quindi, i numerosi ragazzi del Coro di Voci Bianche della Fondazione, curato da Stefania Rinaldi mentre, tra le voci protagoniste, primeggiava per forza tecnica, statura carismatica e immensità dei fiati l'Escamillo del baritono Erwin Schrott.

Quanto ai ruoli di primissimo piano, il mezzosoprano francese Clémentine Margaine, classe 1984 e rodata Carmen del recente circuito internazionale, sfodera in realtà un'interpretazione sui generis nel personaggio del titolo: di particolare tinta bronzea, agguerrita e recalcitrante - più che sensuale - fra spinte dinamiche e spigoli ritmici nella sua celeberrima habanera, così come nella seguidilla. Nell'insieme, una voce dalla timbratura non bellissima ma densa persino nei punti più sfumati. Inoltre, di natura selvaggia tanto nel solfeggio - liberamente gestito fra sospensioni e ritardi per la "gioia" di Valčuha - quanto in un'invece assai interessante autenticità espressiva direttamente riconducibile alle radici andaluse del "cante jondo" giocata in unione con la non meno peculiare sonorizzazione del rotacismo francese. Contaminando in pratica, in un sol colpo, la Parigi di Mérimée e di Bizet con il verace sangue musicale di Spagna. Al ceppo nobile e antico dei tenori di grazia appartiene invece il Don José di Stefano Secco, tempra e tinta da opéra-lyrique, in quota non prima della sua aria al II Atto, "La fleur que tu m'avais jetée". E, come aveva promesso in conferenza-stampa, persino violento secondo quanto effettivamente concessogli dalla Margaine nello strattonare al termine la ribelle Carmen, fino quasi a farle rompere un braccio avendo la protagonista mal calibrato la sua caduta. Dolcissimi invece, come previsto, i filati della Micaëla di Jessica Nuccio, per quanto nella prima serata non in perfetta forma, mentre ancora una volta apprezzate le ottime Sandra Pastrana e Giuseppina Bridelli, rispettivamente Frasquita e Mercédès. Nel cast, ancora, i bravi Fabio Previati (Le Dancaïre), Carlo Bosi (Le Remendado), Roberto Accurso (Moralès) e Renzo Ran (Zuniga). Bene anche il Coro in special modo nel concertato in coda all'Atto II e davvero impeccabile per consistenza e pronuncia il Lillas Pastia del sancarliano Sergio Valentino. In buca si premiano invece primo (Maddalena Gubert) e secondo fagotto (Giuseppe Settembrino), il primo oboe (Hernan Garreffa), il corno inglese, il primo violoncello e due vere punte di diamante: la prima tromba Fabrizio Fabrizi (mentre l'intonazione di quella d'esordio, dietro le quinte, veniva meno) e l'arpista Antonella Valenti.

In via analoga, la sera successiva, tre le eccellenze da lode e menzione in una grande, imperdibile esecuzione del Trovatore di Verdi (fino a sabato 15). Straordinario innanzitutto, come si accennava in apertura lodandolo, Josep Caballé Domenech, esordiente al San Carlo, per una direzione musicale dalla cifra verdiana inaudita: stilisticamente e metricamente perfetta, salda e potente, curatissima nelle dinamiche strumentali quanto sempre assai vigile nell'accompagnare il canto, plasmata ad arte, e nonostante l'inferiore rodaggio in prova rispetto alla Carmen assegnata a Valčuha, nel parallelo scavo drammaturgico-musicale dei rapporti fra Cavatina o Andante cantabile e Cabaletta, nonché dei piani in bilico fra narrazione e azione, ricordo e visione. Il tutto, in giusta linea con il bel fuoco messo a segno dall'allestimento di sintesi fra ultimo Medioevo ed epoca moderna firmato da Znaniecki per la regia, da Luigi Scoglio per le scene e da Giusi Giustino per i costumi.

Semplicemente strepitosa quindi la prova del mezzosoprano Violeta Urmana, Azucena senza pari per intelligenza dei recitativi e verità del canto, intonazione, proiezione e plastica presenza scenica. E fortunatamente, al suo fianco, cantava il Manrico del quarantenne turco Murat Karahan: un prodigioso tenore eroico notato già dalle sue prime, sonore quanto ben tornite note intonate da dietro le quinte e di lì in avanti, in poetico duetto e fino al climax magnificamente toccato nella doppia puntatura al do di petto della sua grande cabaletta "Di quella pira", in coda all'Atto III. Voce rara e veramente bella, la sua, per sensibilità, estensione, fraseggio e un colore con qualcosa che ci ricorda, addirittura, l'indimenticato Pavarotti.

Diverso il discorso, anche in tal caso, per la protagonista femminile Saioa Hernandez in Leonora e per il Conte di Luna di Vitaliy Bilyy. Voci importanti entrambe, ma all'ascolto non esenti da qualche perplessità. La Hernandez gode di buona sostanza e di metallo da belcanto, ferrea tecnica (migliori infatti le sue cabalette rispetto ai movimenti più lenti) ma con appoggi quasi mai pieni e un'intonazione tendenzialmente crescente, il che la porta sempre oltre le righe nonché a strillare in zona più acuta. In percentuale migliore la performance del Conte, voce da Met di New York più che da palato italiano, particolarmente apprezzato dalla seconda Parte in poi. Completavano il cast il Ferrando del basso Ugo Guagliardo, assai sonoro ma talvolta poco omogeneo, l'Ines del soprano Fulvia Mastrobuono (voce non bella), il Ruiz di Gianluca Sorrentino. Ottima infine la prova sia dell'intera Orchestra che del Coro della Fondazione preparato da Marco Faelli. Coro, ancora una volta, riconoscibile quale compagine verdiana "doc".

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