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  • Paola De Simone

Musicalmente intensa, di grande efficacia narrativa entro un rapporto drammaturgico ben teso dal podio fra il testo e la musica, quanto visivamente reinventata fra attualità e tradizione con salda intelligenza registica e un più moderno impatto da grande schermo sotto le cupe luci di Nicolas Bovey e i suggestivi effetti video D-Wok. La forza della Manon Lescaut, primo capolavoro del catalogo pucciniano tornato in queste sere (oggi, alle ore 18, la sesta e ultima recita) e dopo ben ventitré anni sul palcoscenico del Teatro San Carlo, va dunque senz'altro riconosciuta nella rilettura garantita da due colonne portanti: la direzione di Daniel Oren - fu lui a guidarne l'ultima edizione partenopea, nel maggio del 1994 - che, a parte le ripetute ovazioni tributate dal pubblico ad ogni sua uscita fra gli atti e al termine dei bellissimi Intermezzi, ha realmente garantito all'intera opera musica e potenza, dramma e passione, plasticità di tinte, slancio nelle dinamiche e verità di espressione, coerenza formale, modernità del linguaggio e coesione fra tutte le parti in campo, dal golfo mistico al palco. Per poi chiudere spingendo l'emozione e l'Orchestra al massimo, su un finale esaltante quanto in esatta condivisione tra una livida marcia funebre e un avvolgente canto d'amore. Dall'altra, l'originale e sapiente reinvenzione registica di Davide Livermore (ideatore con Giò Forma anche delle scene, nelle foto di Laura Ferrari) innescata scavando a ritroso, come in una psicologica elaborazione del lutto, per ricostruire le vicende attraverso la memoria di un Des Grieux ottantenne (l'ottimo attore Lello Serao, costantemente presente) fermatosi per cinque minuti nel reparto di quarantena di Ellis Island che, nel 1954, sta per chiudere definitivamente i battenti. Un deserto dell'anima - più che un luogo che sappiamo, come d'altronde lo stesso Puccini, non esistente in Louisiana - in cui circa sessant'anni prima, fra le proprie braccia, moriva la sua sensuale e amatissima Manon. Un escamotage che, aggiornando ma senza alterare la storicità della trama anche grazie ai bellissimi costumi realizzati da Giusi Giustino, gli ha permesso di attraversare e attualizzare le epoche e i contesti, legando a fil doppio il destino di Manon e le sorti dei migranti di ogni tempo, la fonte letteraria dell'abate Prévost ben centrando il conflitto fra vizio e virtù, istinto e ragione, all'accentuata temperatura emotiva dei diversi personaggi pucciniani, il Settecento dell'azione riconoscibile nella libertina sensualità di un salotto parigino "bordello" (completo di trans) in casa del ricco tesoriere Geronte con l'opulento fine Ottocento del contesto sonoro, e fino a toccare un Novecento che assorbe in sé i diversi luoghi in quell'unica grande porta d'America. Inoltre, facendo tesoro del cammeo madrigalistico interno all'Atto II in realtà già scritto dal compositore per l'Agnus Dei di una sua stessa Messa, intersecando con genialità seicentesca d'impronta monteverdiana elementi del testo poetico-drammatico con quelli della musica ai fini dell'azione. Il tutto con segnali uditivi o visivi importanti come, in apertura, il rumore del mare unito al verso dei gabbiani, l'arrivo e la partenza della locomotiva a vapore che porta via i due giovani amanti, il gigantesco piroscafo emblema allora come ora di una deportazione-migrazione.

Veniamo alle voci: non abbiamo potuto sentire nel ruolo del titolo Maria José Siri, per un'improvvisa indisposizione sostituita sabato scorso (sua seconda recita dopo il varo della prima) dalla Manon del secondo cast, il soprano originario di Tolosa Ainhoa Arteta che, in una sorta di maratona da record, ha cantato di seguito per quattro recite, fino a ieri. In verità non ci era dispiaciuto perdere la Siri, già ascoltata in Suor Angelica e, al di là dell'immenso volume sostenuto da una tecnica esperta, a nostro avviso troppo ovattata per la parte. Purtroppo l'Arteta, per quanto da noi apprezzatissima in Alice Ford nell'ultimo Falstaff verdiano, parimenti dotata di una gran voce e in più scenicamente dalla sensualità fisica perfetta, mancava timbricamente delle giuste rotondità pucciniane, spesso vibrando con proiezione all'indietro, salendo in acuti quasi sempre stridenti, raramente curando la bellezza del colore e la chiarezza della dizione a favore, invece, di una spiccata quanto predominante chiave drammatica. E questo dall'inizio alla fine, chiudendo con una "Sola, perduta, abbandonata" di convinzione verista, quasi espressionistica e, dunque, totalmente asciugata in termini di musica. Al suo fianco, in parallelo all'attore, c'era il Des Grieux "giovane" del tenore Roberto Aronica, pucciniano senz'altro ma discontinuo fra gli Atti: in prima battuta (Donna non vidi mai) rigido nella curva melodica e non bello nei suoni, acuti compresi perché schiacciati - dissonante addirittura quello messo a segno assieme al soprano al termine del loro primo duetto d'amore - mentre, sugli altri, ha all'improvviso ben preso quota a partire dall'Atto II garantendo slancio, intonazione, tempra e temperamento. In assoluto, prestazione migliore e costante quella del baritono Alessandro Luongo per Lescaut. Completavano il cast il Geronte di Carlo Striuli, l'Edmondo del bravo Francesco Marsiglia, il Musico ben poco interessante di Clarissa Leonardi (in sostituzione dell'inizialmente prevista Monica Bacelli) e, per i personaggi di contorno, gli apprezzabili Giuseppe Scarico, Cristiano Olivieri, Angelo Nardinocchi, Costantino Finucci. Nel complesso buona la prova sia dell'Orchestra che del Coro preparato da Marco Faelli mentre, su tutti, una speciale nota di merito spetta all'arpista Antonella Valenti.

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