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Paola De Simone

«Buonasera Napoli! This is the only Italian I know». Sorride e scherza con il pubblico annunciando poi in inglese la première della sua ultima creazione, Kinan Azmeh, il clarinettista siriano celebre nel mondo che, l'altra sera a Villa Pignatelli per il Maggio della Musica e al fianco del pianista napoletano Fabrizio Soprano, ha letteralmente incantato gli ascoltatori in sala idealmente trasportandoli con il suo suono virtuoso e fortemente gestuale attraverso repertori e culture lontane, fra i linguaggi moderni della tradizione eurocolta e gli accenti coreutici di variegati tracciati folclorici. Al di là dei confini fra l'umanità, oltre i paletti fra i generi in musica (nel video, estratti live del concerto).

La serata, che oltre a presentare in prima esecuzione assoluta le Sirian Miniatures di Azmeh andava a inaugurare una formazione in duo di grande intesa per quanto nata dalla semplice conoscenza reciproca avvenuta a New York 17 anni fa, ha avuto inizio con una delle più belle pagine da camera del primo Novecento, la Sonata per clarinetto e pianoforte di Francis Poulenc, distinta nel catalogo dell'autore (FP) dal n. 184 e dedicata al collega del “Groupe de Six” Arthur Honegger ma scritta per l'eccezionale clarinettista bianco, della Chicago anni Venti, Benny Goodman. Dunque un mix di eleganza e ironia, tecnica e dinamiche, classicità e trasgressioni del jazz, messo meravigliosamente in circolo e a segno da entrambi i musicisti - seducente e smaliziata la resa del clarinetto, salda e musicalissima la parte pianistica per la prima volta suonata, nel 1963, da Leonard Bernstein - attraverso la piena quanto sensibile valorizzazione delle bellissime idee melodiche, delle originali soluzioni armoniche, delle torniture timbriche e metrico-ritmiche. Poi la virata in direzione diametralmente opposta verso le sonorità raggelate e stranianti dei Vier Stücke per clarinetto e pianoforte, op. 5 di Alban Berg: quattro momenti non dissimili da altrettanti, stringati movimenti di un’unica Sonata ma intesi come in sospensione fra il definito e l'ambiguo, l’ombra e la luce, il detto e il non detto. Via dunque ogni seduzione di tocco e di emissione per tinte e dettagli netti, asciutti, ben tesi fra l'abbandono e lo slancio.

Al centro poi, quasi un concerto nel concerto, due preziosi momenti solistici rispettivamente assegnati, il primo, a Fabrizio Soprano per il Liszt di Venezia e Napoli, supplemento delle Années de pélerinage (Deuxième Année) e dunque omaggio all'Italia; il secondo, a Kinan Azmeh, per il debutto delle Sirian Miniatures da lui stesso composte lo scorso anno e pubblicate nel 2017 in omaggio alla sua terra.

Romantico e rigoroso, musicalmente sempre assai denso quanto attento al contestuale affondo fra l'impegno meccanico-timbrico e la caratterizzazione delle immagini poetiche, nonché introdotto da alcune sue efficaci esplicazioni tematiche, il Liszt di Fabrizio Soprano ha restituito forse il volto più autentico del fascino esercitato sul compositore ungherese dai paesaggi e le tradizioni sonore italiane. Dunque non solo elaborandone sul fronte meramente pianistico i difficili percorsi dello stile e della scrittura, ma dando luce, sostanza e radici a quelle fonti ispirative che all'interno dei rispettivi tre paragrafi interni si riconoscono nell'antica Canzone veneta "La biondina in gondoletta", nell'aria del gondoliere su versi danteschi dall'Otello di Rossini e nella vorticosa tarantella da Cottrau che cita di peso la generosa melodia di un cinquecentesco, sospirato canto d'amore in lingua napoletana, "Fenesta vascia".

A seguire, il primo piano sul formidabile Kinan: saluta e spiega brevemente il suo brano inedito agli spettatori, esprime onore e gioia per il nuovo sodalizio in arte con il pianista Soprano, per la sua esclusiva première a Napoli in qualità di autore-interprete. Poi, nel buio, parte l'incanto: un suono suadente, filato e sottile, che arriva come da lontano per condurre, fra suggestioni e inflessioni, in terra d'Oriente. Un suono che è soffio e sabbia, vento e danza, sogno e voce. Un volo fra i registri ed oltre le stesse, consuete peculiarità organologiche dello strumento ad ancia semplice, suonato camminando lentamente, proprio come un incantatore di serpenti, tra le file del pubblico, spazializzando le proiezioni sonore alla Stockhausen, liberando in nuove visioni la forma ma tenendo sempre ben viva la fiamma dell'identità musicale siriana. Fino a smorzare le ultime note e a chiudere quel cerchio magico uscendo dalla sala come al termine di un meraviglioso rituale. Immensi, naturalmente e meritatamente, per lui gli applausi.

A completare l'ampio quanto variegatissimo programma, infine, due diverse, deliziose prospettive folcloriche, legate dalla comune matrice coreutico-popolare: le sette brevi Rumänische Volkstänze di Béla Bartók e le folgoranti Danze di Korond del compositore ungherese László Draskóczy, restituite con pregnante plasticità ritmica e rara sensibilità espressiva.

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