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Paola De Simone

Fenomenale. Velocissimo e virtuoso entro un raro fuoco di sapienza tecnica e intelligenza formale, perfetto nello stile come nell'affondo e nella chiarezza di ogni nota, nello scavo dei singoli passaggi al pari delle iperboliche raffiche di suoni, curando lungo l'intera tastiera con viva personalità e tempra il bel gioco degli accenti fra sospensioni e scatti ritmici, fra metri, espressioni, dinamiche, nonché serrando già solo con uno sguardo dal suo panchetto in primo piano una migliore intesa con l'Orchestra alle sue spalle. E ancora, per quanto rilevato sempre in occasione del suo trionfale ritorno in Stagione al Teatro San Carlo e in data unica al fianco dell'Orchestra della Fondazione con il Secondo Concerto di Martucci, diciamo pure altissimo e degno erede di quella linea della scuola pianistica napoletana che fa capo a Beniamino Cesi per poi stringere in un unico filo lo scultoreo pianismo dello stesso Giuseppe Martucci, di Vincenzo Scaramuzza, della superlativa Martha Argerich. Erede di nuova generazione e grande talento italiano del Sud, Giuseppe Albanese (nelle foto d'apertura) è infatti oggi interprete di assoluto interesse per il repertorio ottocentesco, tardo-romantico e del primo Novecento, in special modo quando fa suo, come attualmente pochi altri al mondo, un lavoro non facile e raro come il Concerto in si bemolle minore per pianoforte e orchestra op. 66 del capuano Martucci. Al di là della totale padronanza tecnica e formale del brano, costruito seguendo le architetture dell'Imperatore beethoveniano, ha sorpreso la lucidità mirabile con cui, entro la perfetta sgranatura delle note fin nei virtuosismi più accesi, il pianista di Reggio Calabria forgiato dalla scuola di Franco Scala ha restituito fino in fondo il senso dello stile e del linguaggio di sintesi dell'op. 66. Vale a dire, un Concerto nato nell'Italia prevalentemente operistica di fine Ottocento eppure attento alle più moderne tendenze puramente strumentali della Mitteleuropa quanto, al contempo, consapevole di un codice ereditario importante non a caso riconoscibile nel primo movimento - e infatti da Albanese argutamente scontornato fra tecnica trascendentale e vivace slancio melodico entro un unico arco in salda tensione - nelle sonorità brahmsiane e schumanniane, nei piccoli flash memori dei brividi trillati del meraviglioso Mephisto Walzer di Liszt e degli incroci vibranti tratti dal cuore della Romanza del K. 466 o dal coevo Preludio, Corale e Fuga di Franck. E parimenti, oltre la cantabilità wagneriana del Larghetto centrale, nella preziosa caratterizzazione settecentesca del rapido tema "alla Paradisi" del travolgente Finale. Speriamo solo di risentirlo presto sullo stesso palcoscenico, magari con uno o entrambi i monumentali Concerti di Brahms. Poi, due bis dal terreno comune ma di opposto segno: un'intensa e persino sinfonica esecuzione del Liebestod di Wagner-Liszt in saggio legame e a tributo della prima rappresentazione del "Tristano e Isotta" al San Carlo che Martucci, fervido promotore wagneriano in Italia, diresse nel 1907; quindi un Moto perpetuo di Weber letteralmente mozzafiato, attraversato come un fulmine, perfettamente esaltato nel singolare cortocircuito tra lo sfavillìo della tecnica brillante e uno spiccato gusto salottiero, staccato a colpo secco, in chiusura, scattando dritto in piedi fra gli entusiasmi del pubblico e i tanti applausi dei professori dell'Orchestra.

Orchestra che, diretta da Elio Boncompagni, figura di gran significato per la stessa storia del Lirico napoletano tra la fine degli anni Settanta e i primi degli Ottanta essendone stato commissario e direttore artistico, nonché artefice in primis di una nuova produzione dell'immane Tetralogia di Wagner, si è distinta per taluni rilievi concertanti in Martucci (bravissimi il primo fagotto Mauro Russo, il primo oboe Hernan Garreffa e l'intera sezione dei violoncelli capitanati da Luca Signorini), per le suggestive onde di suono che unitamente ai due brevi interventi del Coro della Fondazione ha messo bene a segno (ottimi i lunghi "soli" del primo flauto Bernard Labiausse, bravo il timpanista ospite Mirko Natalizi e finalmente preziose le sonorità delle due arpe grazie alle notevolissime Antonella Valenti e Viviana Desiderio) nella Suite n. 2 dal balletto Daphnis et Chloé di Ravel, pagina su tutte maggiormente esaltata dal podio. Infine il Boléro del medesimo autore, con un impeccabile Franco Cardaropoli in primo piano al metronomico tamburo basco e passaggi del tema dalla varia misura qualitativa (bene tutti i legni, Fabio Cesare al sax alto, Fabrizio Fabrizi alla prima tromba e il trombonista Gianluca Camilli, musicalmente in assoluto il migliore per quanto purtroppo scivolato nel suo solo) ma, nel complesso, riletto valorizzandone paratatticamente la crescente scansione marziale più che la spiraliforme vertigine in tensione ipnotico-rituale.

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