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  • Paola De Simone

Pur slittando dall'Ottocento di Dumas al Novecento liberty fra preziose per quanto estranee turcherie, più alcuni moderni effetti da grande schermo, funziona bene e piace a cinque anni di distanza la sensuale Traviata di Verdi creata dal regista Ferzan Özpetek per il Teatro San Carlo con le scene del premiato Dante Ferretti e i pregiati costumi di Alessandro Lai (sopra, l'allestimento nella foto di Luciano Romano), tornata con successo in terza battuta e con immutato smalto per queste sere al Lirico napoletano ma sotto altra bacchetta e per lo più con altre voci.

Diversa innanzitutto la Violetta affidata, in primo cast, a Mariangela Sicilia, soprano leggero fin qui ascoltato sempre per il San Carlo ma sul fronte comico e smart dell'Intermezzo, dunque se non altro interessante perché al suo debutto nel ruolo sulle assi del Lirico napoletano. Alla stampa è andato invece - causa sold out per tutte le 8 recite e dunque, al di là di quanto tributato dal pubblico della "prima" all'esordiente Sicilia, non conosceremo personalmente gli esiti di un'ambiziosa prova che comunque le resterà in curriculum - l'ascolto della generale di sabato scorso, vale a dire di nuovo con la superlativa Maria Grazia Schiavo, voce di formazione barocca ma non meno splendida nella recente Lucia, che ribadiamo, allora come ora, non in parte per tale capolavoro popolare verdiano. Pertanto, a maggior ragione, vocalmente apprezzabile nella costruzione e cura tornite ad arte per il ruolo in virtù di un controllo estremo e di una personalissima, spiccata sensibilità musicale. A tal merito si rinvia quindi a quanto già recensito in occasione della ripresa nel novembre di due anni fa (al link http://paoladesimone.wixsite.com/laquintagiusta/single-post/2015/11/05/Applausi-al-San-Carlo-per-lesordiente-Violetta-del-soprano-barocco-Maria-Grazia-Schiavo-e-per-la-Traviata-cult-del-pluripremiato-Özpetek) con la sola variante aggiunta dell'ulteriore difficoltà nel rapporto con i tempi prevalentemente velocissimi, e privi di respiro, staccati da Renato Palumbo nell'occasione sul podio dell'Orchestra della Fondazione, con il risultato - nel caso della Schiavo - di acuti eroicamente raggiunti entro l'ascesa di un fraseggio per lei, come per tutti, purtroppo in gran parte frettoloso. Ricordando bene la più che valida rilettura di Palumbo per il Gustavo III al San Carlo nel 2004 e, per tale Traviata, avendone rilevato la profonda conoscenza della partitura puntualissima in tutti gli attacchi, si resta assai perplessi dinanzi alla mezz'ora in cui è sfilato rapido il primo atto, al pari del secondo (meno penalizzato il terzo proprio per la prestanza interpretativa di Maria Grazia Schiavo), buttando sin dal principio fuori asse il Coro della Fondazione, falciando le voci più deboli come quella del tenore Matteo Falcier - di colore rossiniano e in ogni caso acerbo per Alfredo - o quella di Marco Caria che, per Germont padre, ha solo parzialmente potuto sfoderare la sostanza e la solidità della sua voce baritonale, non tagliata nei numeri ma totalmente priva di sfumature a fronte, ad esempio, dell'intenso duetto disegnato in prevalenza dalla Schiavo. E non meno irrigidendo, ossia rendendo poco agevoli, i movimenti dei ballerini del Corpo di Ballo del San Carlo nella pur intelligente e aggiornata coreografia firmata da Edmondo Tucci. Certo, in partitura non sono pochi gli Allegri spinti al "brillantissimo", al "vivo" come nella Stretta dell'Introduzione o in climax verso l'"agitato", "agitato assai vivo" e "velocissimo" nel Finale secondo, ma ciò non giustifica la spinta dei tempi in pentagramma per una folle - e, se vogliamo, ultimamente alquanto di moda - corsa andata a piallare l'eloquio e le molteplici dinamiche, a rendere ancora più bandistiche le cabalette, a spingere sul pressante battito ritmico-cardiaco dell'accompagnamento strumentale più che a valorizzare in orchestra i tanti dettagli oltre i perimetri di superficie e dare dimensione ai colori, alle curve espressive e appunto ai fiati necessari dettati dal canto nelle diverse situazioni drammaturgiche. Ad ogni modo, persino nell'Adagio della Sinfonia d'apertura non abbiamo rilevato né tensione, né orecchio all'intonazione tanto dei violini quanto degli ottoni.

Fra i comprimari, meglio l'Annina di Marta Calcaterra che la Flora di Annuziata Vestri accanto al Gastone di Stefano Pisani, al barone Douphol di Paolo Orecchia, al marchese d'Obigny interpretato da Paolo di Gioia e al dottor Grenvil di Laurence Meikle.

Si replica da domani (ore 20) fino a venerdì 5 maggio.

Si vieta la riproduzione dell'articolo e di ogni altra sua parte

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