Oltre sessanta gli allestimenti, e con una miriade di ugole celebri dall'Ottocento ad oggi (dalla Fanny Tacchinardi Persiani alla divina Callas e, in anni più recenti, alla straordinaria Mariella Devia) sul palcoscenico del Teatro San Carlo per la Lucia di Lammermoor, capolavoro che il bergamasco Gaetano Donizetti compose per il Lirico partenopeo. Dunque, un titolo chiave nell’era del belcanto che nasce a Napoli nel giro di appena quaranta giorni dal cuore del primo Ottocento e che, ben oltre la vertigine dell’esordio trionfale quanto oltre gli stessi tracciati del tempo, di quella città racchiude in forma esemplare frammenti di vita e di storia, di arte, drammaturgia musicale e cultura. Al di là della romantica trama di amore e morte fra i due giovani appartenenti a stirpi rivali, Lucia Asthon e sir Edgardo Ravenswood tratti dal romanzo storico di Walter Scott (“The Bride of Lammermoor”, 1819) qui edito da Marotta e Vanspandoch nel 1826 nella traduzione di Gaetano Barbieri in allineamento al respiro letterario d’Europa, fra la partitura del bergamasco Gaetano Donizetti e il libretto del napoletano Salvatore Cammarano si rintracciano radici e tasselli che in tanti, oggi, non sanno o non ricordano più. A partire dal compositore, uomo del nord attivo al sud: la “Lucia” fu scritta appunto per il San Carlo fra il 29 maggio e il 6 luglio 1835 (data sull’ultima pagina del manoscritto e titolo con una sola “m” come anche nella copia al “San Pietro a Majella”) in via della Corsea, poi trasferitosi al secondo piano di un piccolo appartamento in via Nardones n. 6 (oggi non più esistente) in piena epidemia di colera e dopo mille difficoltà da parte degli amministratori prossimi al fallimento della Società d’Industria e Belle Arti, risolte poi da Ferdinando II in persona. Quindi, straordinario debutto la sera del 26 settembre, ad appena tre giorni dalla morte di Bellini, e un Donizetti nel pieno della propria carriera d’operista a Napoli, fra Teatro Nuovo, del Fondo e San Carlo. A Napoli era stato infatti nominato nel 1829 direttore dei Reali Teatri nonché, sempre su dispaccio del re, Maestro di contrappunto e composizione del Real Collegio di Musica (dal 1834 al 1838) dove fu visto come un innovatore al quale, persino Rossini da Bologna e Cherubini da Parigi, raccomandarono i loro allievi. D’altra parte non è un caso che, proprio in “Lucia”, l’autore abbia unito al vertice virtuosismo strumentale ed espressività della voce umana così come musica e drammaturgia: emblema di entrambi, la grande scena della follia, in origine per armonica ad acqua, quindi il ritorno di flashback in forma musicalmente allucinata accanto all’impiego anomalo di cabalette in tempo moderato per evidenziare gli stati di alterazione psichica ed emotiva.
Opera che, dunque, con orgoglio ci appartiene. Profondamente, anche per le radici del librettista Cammarano, al pari legato alla vita teatrale del tempo e ai nostri luoghi, da Donizetti per la prima volta incontrato in occasione della “Lucia”, rampollo di una famiglia di straordinari talenti artistici e teatrali, dedito alla pittura e alla drammaturgia. Infatti, dal ’34 risulta reclutato al San Carlo come “concertatore”, ossia direttore di scena e curatore di regia e scenografia degli allestimenti scenici. Ecco perché, per il capolavoro donizettiano, fu necessaria l’autorizzazione del Teatro per poter usufruire del trentaquattrenne librettista. Ed ecco perché, di suo pugno, restano nella Biblioteca del “San Pietro a Majella” gli appunti autografi relativi al progetto e alla messa in scena dell’opera.
Opera che tuttavia, oltre quella storica prima, mai più si era ascoltata a Napoli con la grande scena ed aria della pazzia affidata alla glass harmonica, lo strumento fatto di coppe di vetro che in origine Donizetti ideò in gara con la voce della protagonista Lucia ma poi, a seguire e per sempre, sostituito per una retribuzione mancata dai funambolici virtuosismi del primo flauto in orchestra. E mai si era ascoltata una Lucia così vicina alle radici della scuola napoletana, dalla voce sincera quanto di puro belcanto: giovane e fresca, autentica ad ogni nota e gestita ad arte nelle messe di voce come nei lunghissimi fiati ben allenati da tanta prassi barocca, curata con speciale sensibilità e intensità in tutti i gradi a salire fino alle vette in zona sovracuta, intensa nei recitativi, nelle sortite liriche esattamente quanto nei picchiettati o nei passaggi tecnici più arditi. E sempre, sempre intonatissima.
Vale a dire, un'edizione da lacrime e brividi, quella ascoltata al Teatro San Carlo con la voce del soprano Maria Grazia Schiavo nel ruolo del titolo e con la direzione impeccabile, tutta a memoria, di un sorprendente Stefano Ranzani, chiarissimo e dalla tornitura netta sia nella logica che nella sostanza espressiva sin dalla Sinfonia d'apertura. Oltre che spettacolo in grado di poter contare su un tenore di ottimo timbro, dal fraseggio elegante e di bel temperamento quale Saimir Pirgu nel ruolo dell'amoroso Edgardo, nonché su un baritono di tinta e presenza vibrante come Claudio Sgura nei panni dell'antagonista Enrico (in apertura, nelle foto di Luciano Romano, Maria Schiavo e Saimir Pirgu) .
Edizione, difatti, ampiamente applaudita a scena aperta, con urla e richieste di replica (non concessa) dell'aria della pazzia e infine coronata in chiusura da un'esplosione di entusiasmi, per tutti ma, innanzitutto, per la napoletana Maria Grazia Schiavo, divina e nuova Lucia, al suo esordio nel ruolo per Napoli. Quando l'ascoltammo in Traviata azzardammo e suggerimmo quale ruolo ideale appunto la protagonista del capolavoro donizettiano, ma mai avremmo immaginato tanta perfezione ed intesa fra il suo canto e il suono raggelato quanto estraniante della glass harmonica, tra l'altro nell'occasione suonata in maniera formidabile dallo specialista Philipp Marguerre (sotto, nella foto di Luciano Romano).
A completare i meriti del successo, la solidità dell'allestimento tradizionale firmato dalla regia di Gianni Amelio, già apprezzato nel 2012 ed ora ripreso da Michele Sorrentino Mangini, le scene di Nicola Rubertelli (magnifica e romanticissima quella del mare in visione notturna), i costumi elisabettiani di Maurizio Millenotti (ripresi da Tiziano Musetti), le luci di Pasquale Mari riprese da Fiammetta Baldiserri. Quindi, complessivamente centrata nello stile la prestazione del Coro sancarliano preparato da Marco Faelli e notevolissima la risposta dell'Orchestra della Fondazione a fronte della sapiente disamina e delle salde redini tenute da Ranzani, con picchi di eccellenza fra le prime parti dei legni (il flautista Bernard Labiausse, l'oboista Hernan Garreffa, il clarinettista Luca Sartori, il fagottista Mauro Russo), degli archi (la violinista Miriam Dal Don, il contrabbassista Ermanno Calzolari), di trombe e tromboni (rispettivamente Fabrizio Fabrizi e Sergio Danini a fronte della scarsa qualità registrata nei corni e in un'arpa (Marcella Lamberti) che ci ha fatto abbondantemente rimpiangere la momentanea assenza della bravissima arpista sancarliana Antonella Valenti o della parimenti apprezzata Viviana Desiderio.
Così come, tra le voci, assai infelice per intonazione è stata l'uscita del pur interessante tenore Giuseppe Tommaso (Lord Arturo Bucklaw) e poco sonora l'Alisa di Tonia Langella.
«Sarà come un viaggio, un sogno» aveva dichiarato Maria Grazia Schiavo in conferenza stampa alla vigilia della première parlando della sua Lucia. Ed è stato così: un incanto che lascia il suo segno fra le più belle esecuzioni, storiche e recenti, della "Lucia" ascoltate su quel palcoscenico di cui Salvatore Cammarano era responsabile e accanto al quale, nella barcaccia a sinistra in prima fila, ebbe a sedersi il Direttore dei Reali Teatri Gaetano Donizetti.
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