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Paola De Simone

Fantasia e rigore, vitalità metrica e lucentezza delle dinamiche, atmosfere, narrazione, timbri puri e un controllo assoluto della partitura, sia nell'impalcatura generale della forma che nella plasticità dei molteplici percorsi interni. Un insieme di qualità che piuttosto raramente, nel rapporto podio-orchestra, si rintraccia e inoltre s'innerva di quella forza motrice a briglie tese così come l'abbiamo ascoltata grazie al pensiero analitico e ai gesti esatti del direttore francese Pascal Rophé (nella foto d'apertura) alla testa dell'Orchestra del Teatro San Carlo in occasione del bel sinfonico, interamente diretto a memoria, dedicato al primo Novecento di Francia fra le celebrazioni in omaggio a Ravel negli ottant'anni dalla morte con Le tombeau de Couperin, più Ma Mère l'Oye, e lo Stravinskij della Suite (versione del 1919) da L’oiseau de feu, suo primo balletto composto a Pietroburgo ma presentato all'Opéra, dunque sempre a Parigi, il 25 giugno 1910 per la stagione dei Ballets Russes su commissione dello scaltro impresario Diaghilev. Un'esibizione razionale e raffinata, densa ed intensa secondo un arco, stando agli esiti messi a segno nel giro di neanche 90 minuti e senza intervallo, attraverso un tagliente crescendo. È così che il musicista Rophé, specializzato nella musica del secolo XX e ad oggi Direttore Musicale dell’Orchestre National des Pays de la Loire, ha scelto di incanalare la prima partitura in ascolto entro un paio di coordinate mirate: gran velocità e una raffinata leggerezza di spiccata vocazione coreutica in chiaro collegamento con la scrittura antica sia delle danze del Barocco francese che dello stile clavicembalistico a firma di François Couperin, alla cui memoria la composizione, in origine destinata al pianoforte, è appunto intitolata. E da qui, un paio di dettagli: gli ottimi interventi del primo flauto Bernard Labiausse e della prima tromba con sordino Fabrizio Fabrizi - laddove il ruolo pur protagonistico del primo oboe Domenico Sarcina, proprio per l'estrema velocità, non ha trovato la migliore cura del suono e del fraseggio messa invece a punto più avanti - quindi, il piglio già intelligentemente stravinskiano da Rophé tirato fuori attraverso i rapidi pentagrammi del Rigaudon di chiusura. A seguire, ancora un Ravel e parimenti un'orchestrazione dal precedente pianistico con i Cinq pièces enfantines raccolti nel ciclo di fiabe Ma Mère l'Oye di Perrault (se si vuole, in ideale liason con la Cenerentola a breve in palcoscenico per la danza), composto fra il 1908 e il 1910 per i figli, Mimie e Jean, degli amici Godebski. E qui la speciale intesa fra il metro e lo stile ha offerto ad ogni nota sul fronte performativo momenti di autentico pregio quali la tornitura del modo eolico e il passaggio fra i legni del tenero tema della Pavane de la belle au bois dormant, così come, nei capitoli successivi, il direttore francese ha chiaramente illustrato la nobiltà degli intrecci melodici e la forza evocativa delle immagini timbriche attraverso il melos sinuoso del corno inglese di Giuseppe Benedetto, le belle dinamiche in sforzando o in pianissimo degli archi, ancora attraverso il primo flauto fra ribattuti e trilli virtuosi per poi chiudere la silloge con un'Apoteosi di eleganza inaudita. Infine la vetta, toccata con L'uccello di fuoco di Stravinskij, partita con quel vibrante motore sotto pelle affidato ai contrabbassi capitanati da Ermanno Calzolari, cantata attraverso il gioco dei legni e di un super fagotto qual è Mauro Russo o divaricata in impennate ritmiche e dinamiche nei diversi quadri di fiaba divisi fra il sovrannaturale cromatico e l'umano diatonico. Dunque esplosa con violenza magmatica e parimenti inaudita a partire dall'efficacissimo, sordo colpo di gran cassa sferrato da Marco Pezzenati ad incipit della danza infernale del mago Katschej e fino alla perorazione conclusiva, con bravissimi ottoni in triplo forte e alle stelle (dispiace solo non vedere più da qualche tempo nella fila dei corni l'ottimo e ormai storico Filippo Azzaretto) più una chiave di volta magica da Rophé trovata nella repentina contrazione, per un attimo come in sospensione alle soglie del silenzio (pianissimo subito), a tre battute dalla chiusa. Il tutto, per un parossistico Finale distillato al millesimo e che nella grandiosità del crescendo impressa a fuoco da tutti fra podio e Orchestra, a nostro avviso, può vantare pochi altri eguali.

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