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  • Paola De Simone

In apertura del concerto sinfonico in stagione al Teatro San Carlo che ha ospitato dopo Barenboim (lo scorso novembre) e in attesa della straordinaria Argerich (il prossimo 2 febbraio) una delle più alte e altre leggende pianistiche del Novecento, lo spagnolo Joaquín Achúcarro accanto all'ottimo Fabio Luisi (nelle foto di Francesco Squeglia) sul podio dell'Orchestra della Fondazione con Ravel e Beethoven, è stata letta fuori campo una dedica - opportuna e toccante - per tutte le persone coinvolte nel disastro di Rigopiano e per gli eroici soccorritori in quelle stesse ore impegnati contro il tempo e in condizioni estreme. Quindi, un caldo applauso e immediatamente l'ingresso sul palco del grande interprete del pianoforte che, giusto a ottant'anni, ha nell'occasione letteralmente sfidato e vinto velocità, asperità tecniche e molteplicità di stile di una delle pagine per solista e orchestra più delicate e ardite del secolo Ventesimo: il Concerto in Sol maggiore di Ravel. Un coacervo di modelli e tendenze, di idee e di colori che il più abile orchestratore dell'epoca moderna ebbe ad unire alle risorse solistiche del pianoforte originariamente pensando di sintonizzare la sua creazione ai gusti circensi del pubblico americano volendo presentare tale primo Concerto durante una tournée negli States alla fine degli anni Venti. Poi, nulla di fatto, il ritorno in Francia e la ripresa dell'abbandonata composizione del Concerto in Sol (eseguito per la prima volta il 14 gennaio 1932, a Parigi, dalla pianista dedicataria Marguerite Long e dall'Orchestra Lamoureux diretta dall'autore) in parallelo al compimento del Concerto per la sola mano sinistra, scritto invece per il pianista austriaco Paul Wittgenstein mutilo del braccio destro nei giorni della guerra. Di qui la commistione della classicità mozartiana con la viva lucentezza alla Saint-Saëns, di temi popolari baschi con voli timbrici alla Fauré accanto ad innesti blues e jazz di chiara bandiera a stelle e strisce oltre all'impiego della sua tipica, affilatissima cifra pianistica. Ebbene, al di là di un tocco sempre nitido e netto, il taglio privilegiato d'intesa con il podio almeno per i movimenti esterni è stato proprio quello più americano e dunque jazzistico, evidente nell'accentuata componente ritmica irregolare, nelle vertigini sul filo dell'improvvisazione e in una modernità dinamico-timbrica che tanto ha ricordato, in special modo nell'uso degli ottoni, sia lo stile che le seduzioni inventive di Gershwin.

Discorso a parte per il movimento centrale, in tempo di Adagio assai e tonalità di Mi maggiore: un'oasi d'incanto e d'interazione esemplare fra il dolce melos del pianoforte solista e quello dell'intera famiglia dei legni. Lucido e al contempo intenso il canto di Achúcarro; quindi, un capolavoro d'intarsio dagli interventi del primo flauto Bernard Labiausse, del primo oboe Hernan Garreffa e del primo clarinetto Luca Sartori mentre, una lode speciale, spetta a Giuseppe Benedetto al corno inglese in via eccezionale, e con soluzione geniale suggerita dallo stesso pianista spagnolo, spostatosi accanto ai primi violini per l'intera durata del suo "solo" a dialogo nella riesposizione, andando così pienamente ad unirsi con salda intonazione, rara cura sia del suono che del fraseggio e bella sensibilità d'espressione agli ampi arabeschi del solista al pianoforte.

E come il Presto finale è stato staccato a velocità supersonica, con apprezzata corsa mozzafiato dei due fagotti in campo (Maddalena Gubert e Giuseppe Settembrino), così sarebbe stata riletta da Luisi la Settima Sinfonia di Beethoven. Ma, prima, due bis della migliore tempra del titano Achúcarro: il Notturno per la mano sinistra op. 9 n. 2 di Scriabin, eseguito sprigionando da quelle sole cinque dita l'intera arte del suo pianismo, e il Valzer n. 14 in mi minore, opera postuma, di Chopin.

Infine, dunque, il Beethoven della Settima: elettrico e d'impulso realmente dionisiaco, scolpito seguendone il battito cardiaco nei forti colpi dei timpani e al grave, ricercato nella timbrica antica dei corni così come serrato nel gioco efficace fra archi e legni, nella filigrana del fugato e della marcia, vivo come non mai nel taglio a contrasto di piani sonori, scelte metriche e dinamiche.

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