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Paola De Simone

Due ministri nel palco reale - Beatrice Lorenzin e Claudio De Vincenti - accanto ai vertici istituzionali della Fondazione sono un bel segnale per Napoli, ma non bastano ad accendere l'allure di una première in stagione d'opera che, per quanto giocata su uno dei titoli più belli dell'intero repertorio del melodramma italiano, vede il Teatro non del tutto gremito e un pubblico - sarà senz'altro stata colpa della serata particolarmente fredda - per lo più in abito da replica pomeridiana se non da prova generale. Il tutto, a fronte della festa di fiori, dell'elegante sfarzo dei vestiti femminili e di quella splendida vertigine da grande evento che per anni abbiamo vissuto e respirato nel Lirico tirato a lucido con tante inaugurazioni e "prime" nei cartelloni del recente passato. Con ogni probabilità, conseguenze dei tempi.

E, se vogliamo, questioni di forma che solo relativamente pesano se il Rigoletto tornato al San Carlo con la sempre efficace produzione dal raffinato tratto psico-erotico e rinascimentale di Giancarlo Cobelli, creata nel 1989 per Bologna, vista a Napoli nel 2005 e ora ripresa da Ivo Guerra a cinque anni dalla scomparsa del celebre regista milanese, scenicamente piace e soprattutto musicalmente funziona a meraviglia restituendo una lezione musicale altissima grazie alla magistrale direzione di uno dei massimi e forse ultimi depositari della grande tradizione lirica italiana sul podio, l'oggi ottantacinquenne Nello Santi. E, naturalmente, grazie alla qualità notevolissima degli esiti canori sfoderati in varia misura dai protagonisti del cast - il Rigoletto del baritono George Petean, il Duca di Mantova del tenore Piero Pretti e la Gilda del soprano Rosa Feola - così come anche dallo Sparafucile del basso profondo Giorgio Giuseppini, dalla Maddalena (escluso qualche iniziale vuoto di volume) dell'assai sensuale mezzosoprano Anna Malavasi e dal Coro maschile ben preparato da Marco Faelli (nelle foto di scena di Francesco Squeglia: l'apertura sulla corte di Mantova nell'Atto I, il duetto finale di Rigoletto e Gilda mentre, sotto a sinistra, Gilda e il Duca al I Atto; in basso: il Duca in apertura del II Atto e, al III Atto, sempre il Duca con Maddalena).

Si inizia con qualche minuto di ritardo, alle ore 20.36: il primo piano a cornice buia è sull'intenso Rigoletto di Petean, al proscenio in ginocchio e con le mani alle tempie esattamente come lo rivedremo, accanto al corpo della figlia agonizzante, al termine dei tre atti scritti e versificati da Piave per la geniale partitura di Verdi in remake drammaturgico-musicale dalla fonte di Victor Hugo. È un circolo che, ad anello, attraversa a taglio la divaricata realtà della lasciva corte mantovana e del morboso quanto tormentato mondo interiore del buffone del Duca, fra il candore di una fanciulla che si evolve in donna e la spregiudicata condotta della gente sia d'alto lignaggio che di bassa strada. Sono temi profondi, di forza inaudita, così come d'altra parte lo stesso Verdi ben comprendeva nei giorni della genesi del primo tassello della cosidetta "Trilogia popolare" (e non "romantica" come scritto altrove): «Un gobbo che canta? Perché no!» azzardava il compositore nel dicembre del 1850 riflettendo con il presidente della Fenice, Marzari, sulla spinosa questione dei divieti imposti dalla censura austriaca ai soggetti drammatici per la librettistica. Effettivamente, portare in pieno Ottocento in scena un gobbo e che per giunta al termine, per quanto inconsapevolmente, uccide la propria figlia, era senz’altro una scelta scabrosa. Ma teatralmente non più di tanto in un’ottica drammaturgica ideologicamente orientata a soppiantare le irreali quanto in passato convenienti astrazioni tematiche e cronologiche in vigore nel genere operistico dagli albori seicenteschi a tutto il Settecento, per favorire invece trame ed esiti sempre più vicini alla realtà, in linea con il moderno sentire dell’uomo romantico. Il vero problema, nel caso in esame, era piuttosto l’exemplum - poco edificante - di una testa coronata con relativa corte e dissolutezze: Le roi s’amuse (Il re si diverte) di Hugo, alludeva ad un vero re, Francesco I di Francia. Bisognava trovare un escamotage. A formulare la soluzione? Sarebbe stato un modesto funzionario della censura, Carlo Martello, che suggerì di trasferire la vicenda dalla Francia recente alla corte di Mantova d’epoca rinascimentale. Il buffone Triboulet diventava così Rigoletto mentre, la testa coronata, si trasformava in un anonimo Duca di Mantova (in realtà, Vincenzo I Gonzaga) dalle poche virtù e dai molti vizi, in musica scolpito con plastici quinari nella spavalda quanto celebre Canzonaccia “La donna è mobile”. Ed è sempre per gli effetti della censura, al di là dell’operato degli autori di testo e musica, che durante i primi anni di giro il lavoro (in origine, La maledizione) varato con pieno successo a Venezia, si presenta al pubblico con i titoli più svariati: dal Duca di Vendôme o da Viscardello - con vicenda nella lontana Boston, Duca di Mantova tramutato in Duca di Nottingham, inganno di Gilda in luogo del rapimento, idoneo per Stato Pontificio, Granducato di Toscana, Ducato di Modena e Reggio - a un generico Lionello dai personaggi vaghi (ne restano i figurini della collezione Guillaume personalmente catalogati per Internet Culturale, al San Pietro a Majella), utile per il Regno delle Due Sicilie o a Clara di Perth, nell’unica occasione in scena al Teatro Nuovo di Napoli (1853). Quindi, con l’Unità d’Italia, la definitiva affermazione (così come Traviata in luogo di Violetta) del titolo che oggi amiamo e tutti ben conosciamo.

Ebbene, quella forza di genesi e quelle coordinate lirico-drammatiche sono emerse in tutta la propria autenticità di storia, stile, metro e varietà d'espressione a partire già dalla prima nota e dai quei possenti tremori in minore scontornati a fuoco dal Maestro Santi (nella foto sopra): un gesto quasi fermo, saldo nella memoria quanto inesorabile nella pienezza dei contenuti e nell'estrema consapevolezza del ritmo, dei volumi sonori, delle esatte dinamiche, dei respiri uniti in un sol fiato fra strumenti in buca e canto in palcoscenico. Tanti infatti gli applausi per lui, in via crescente, ad ogni ingresso sul podio e in special modo al termine degli atti. E pieni parimenti i consensi per un'Orchestra che ha risposto con perizia e sollecitudine (ottima anche la prova vivace della banda dietro le quinte governata da Maurizio Agostini) alle intenzioni e agli indirizzi impressi dal grande direttore. Con soli speciali che riconosciamo al mai sufficientemente lodato primo oboe Hernan Garreffa (morbido e al contempo luminosissimo il suo scoperto accompagnamento al canto di Gilda in "Tutte le feste al tempio"), del primo violino Gabriele Pieranunzi, del primo flauto Silvia Bellio in "Caro nome" e del primo clarinetto Luca Sartori oltre alla vibrante resa dei violoncelli guidati da Luca Signorini.

Quindi, ribadendo la funzionalità del contenitore scenico (di Paolo Tommasi) con il bel quadro di fondo affidato ai figuranti seminudi ispirati alla pittura rinascimentale, con le buone disposizioni del Coro maschile della Fondazione in abiti (ripresi da Giusi Giustino) di velluto rubino e con voci in gran forma ma con luci (curate da Carlo Netti) ancora una volta, come nel recente Schiaccianoci, minate dall'abuso dell'implacabile violetto di wood in zona proscenio, passiamo alle voci. Ed è dagli esiti riscontrati nelle diverse costruzioni melodrammatiche, osservate tanto nella dizione dei contenuti quanto nelle valorizzazioni scenico-musicali, che ne è risultata una lettura perfettamente centrata fra i nessi di azione e narrazione, testo poetico e scrittura musicale, situazioni, dinamiche relazionali ed eventuali scavi psicologici fra i personaggi in gioco. Anche in tal caso, almeno per quel che riguarda i tre nomi di punta, di raro pregio si è rivelata la qualità del canto. Un canto della più nobile cifra italiana: ampio, intonato al millesimo e di bel portamento in ogni luogo della rispettiva tessitura, ritmicamente duttile e particolarmente intelligente nel concertare significati e significanti, nel rifinire con cura incisi, accenti ed ampie curvature melodiche. Ottimo infatti il Rigoletto del bravissimo George Petean, così poco buffone e piuttosto padre dalle sfumature molteplici, intimamente tormentato, drammatico e dai plastici affondi. Una vera sorpresa, poi, il Duca di Piero Pretti, dall'emissione potente e dai fiati ben fermi, lunghissimi, sempre curato e appropriato in ogni dettaglio, puro e poetico - dunque mai odioso o volgare, bensì da belcanto del "primo Ottocento" - persino nel sentenziare contenuti a-morali come nella sua nota ballata in sei ottavi "Questa o quella per pari sono" o nell'ancor più celebre Canzonaccia in tre ottavi. Efficacissima l'intera apertura dell'atto centrale al lui affidata fra l’ansia per aver perduto l’oggetto del proprio amore (Ella mi fu rapita; Parmi veder le lacrime) e la gioia improvvisa per aver appreso che la ragazza è stata portata nel suo palazzo (Possente amor mi chiama). Discorso un po' diverso per Rosa Feola, soprano campano (è nata nel 1986 a San Nicola la Strada, nel casertano) dotata di una pasta timbrica eccelsa e di una non comune capacità di gestire una voce, a nostro avviso, veramente centrata a partire dal pieno lirismo dell'Atto II e dunque dal suo bellissimo melos, delicato, intenso e disciplinato con rigore assoluto in "Tutte le feste al tempio" in cui confessa di aver perduto l'onore, più che nelle cristalline agilità all'acuto un po' troppo smussate nel primo Atto. Bene al loro fianco, come accennato, sia la prova della Malavasi che di Giuseppini, meno interessanti - sempre vocalmente - invece i ruoli restanti.

Un unico filo ad alta tensione sonora e canora, infine, fra il meraviglioso Quartetto "Bella figlia dell’amore", la Tempesta, il Terzetto (Se pria ch’abbia il mezzo la notte toccato) e il drammaticissimo duetto padre-figlia che chiude, con perfetta simmetria ad anello, con l’urlo di Rigoletto e l’avverarsi della maledizione scagliata contro di lui al primo Atto - con chiare reminiscenze del mozartiano Commendatore - da un tuonante Monterone.

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