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  • Paola De Simone

In apertura di recensione, giusto per esprimere la nostra sensazione all'esordio delle nuove modalità di accesso per tutti i cronisti e i critici agli spettacoli del Teatro San Carlo che, d'ora in avanti, attenderanno in piedi fino agli ultimi minuti per accomodarsi negli effettivamente migliori posti rimasti disponibili, ci si perdoni l'ironica ma dotta similitudine con quanto accaduto alla prima dell'opera Il Guarany di Carlo Gomes, in scena alla Scala di Milano nel marzo 1870 e alla quale preferiamo rinviare per l'origine del termine "fare il portoghese", ben noto ai frequentatori degli spettacoli perché destinato a chi entra senza posto deputato all'interno di una platea. Al Guarany, dunque, più che all'ipotesi lessicologica recente e predominante che ne riconosce, invece, le radici in una serata indetta nel Settecento al Teatro Argentina di Roma dall'ambasciatore del Portogallo presso lo Stato Pontificio a beneficio esclusivo dei cittadini portoghesi residenti a Roma ma, nella quale, si sarebbero poi infiltrati alcuni romani spacciandosi della nazionalità prescritta dagli inviti. Nell'occasione scaligera, invece, tre studenti ovviamente senza soldi avrebbero escogitato l'escamotage di fingersi portoghesi annunciandosi appunto per tali in alternanza ai selvaggi Guarany nell'entrare in fila come parte dell'immenso Coro formato da colonizzatori e colonizzati necessario solo all'inizio dell'opera ma, per l'eccessivo ingombro, tenuto pronto fuori all'ingresso degli artisti fino a pochi minuti dallo spettacolo.

Detto ciò, la Bohème firmata da Francesco Saponaro con le scene di Lino Fiorito (sopra, nella foto di Luciano Romano) e già apprezzata nel luglio 2015 in occasione del San Carlo Opera Festival, ha confermato la propria efficacia poetica quanto la forza di un'essenziale modernità scenica e drammaturgica, a nostro avviso, ben salda anche al di là della flessione qualitativa delle altre componenti di volta in volta in gioco nella stessa produzione. Diverso infatti stavolta il cast di voci e differente anche la bacchetta sul podio, affidata al giovane direttore Valerio Galli, nato nella terra di Puccini, esordio a ventisette anni con Tosca, 42° Premio Puccini alla carriera ed oggi, che di anni ne ha trentasei, per la prima volta al San Carlo alla guida di Orchestra, Coro (preparato da Marco Faelli) e Coro di Voci bianche della Fondazione (a cura di Stefania Rinaldi) fino alla recita di domani mercoledì 21 alle ore 18. C'è da dire, partendo proprio da lui, che le tinte pucciniane almeno potenzialmente appartengono senz'altro al suo corredo genetico, pur tuttavia alla verifica in ascolto (recita di domenica) ancora in gran parte da maturare ci è parsa l'intesa metrica ed espressiva fra il golfo mistico e le voci in palcoscenico, così come da scavare e tirar fuori erano tante le sfumature timbriche e le molteplici dinamiche rimaste invece ferme al palo in partitura. Compresi i crescendo non montati ad arte, le chiuse a taglio e le concertazioni preziose entro il range di un'agogica condotta per lo più al minimo. Nessuna magia, per intenderci, dall'Orchestra e difatti, per il primo contatto più vivace ed autentico con la scrittura pucciniana si è dovuto attendere il baccano e il giusto fuoco con cui entrano il Coro e il Coro di Voci bianche nel quadro del Café Momus.

Diverso il caso delle voci: non in parte ma di arte notevole era la Mimì del soprano moldavo Irina Lungu, interprete di bella tempra drammatica e senz'altro più adatta all'Adriana di Cilea o alla stessa Tosca pucciniana, o finanche alla Butterfly sfoderando ampi archi melodici ed intense messe di voce a "forchetta" destinate a ritagliare una protagonista fuori tradizione, dal metallo più acuminato e tagliente che dolcemente arrotondato, senz'altro in zona migliore all'acuto. Viceversa il Rodolfo del tenore Francesco Demuro, sicuro nelle note in tessitura centrale, dagli ampi fiati ma forse nell'occasione dalla voce stanca viste le frequenti rotture al registro più alto, la totale mancanza di armonici e talvolta anche del giusto volume. Più intenso ma da sgrossare il Marcello di Alessandro Luongo, come già nel recente Mozart assai prestante sul fronte scenico-espressivo, quindi la Musetta di Ellie Dehn, migliore nelle vertigini all'acuto rispetto ai cali in zona medio-grave. Bravo lo Schaunard di Giulio Mastrototaro mentre senza sorprese il Colline di Alessandro Guerzoni (ci sarebbe piaciuto ascoltare Andrea Concetti, presente nelle altre sere) nella sua pagina cult "Vecchia zimarra". Completavano il quadro dei ruoli essenziali il Benôit/Alcindoro di Matteo Ferrara e un altisonante Parpignol del noto tenore salernitano Ennio Capece.

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