top of page
Paola De Simone

Rossiniano e napoletanissimo è stato l'ultimo gradito, quanto centrato omaggio fuori programma che il tenore americano John Osborn, applaudito protagonista nel recente Otello inaugurale, ha voluto regalare al pubblico partenopeo scegliendo un cavallo di battaglia di tanti interpreti, compreso il mitico Caruso, quale "La Danza" in tempo di Tarantella tratta dalla raccolta "Les soirées musicales" per chiudere il suo recital al Teatro San Carlo in tandem con la moglie soprano Lynette Tapia. Un bel saluto in musica alla città del Golfo prima rientrare in Florida e bis intonato con piglio e temperamento fra i tanti consensi ma, anche, fra i molti spettatori di platea con la pessima abitudine di volgere le spalle agli artisti ancora in palcoscenico per guadagnare in fretta l'uscita.

Dunque, partendo a ritroso, è in quell'autore Rossini, dal virtuosismo solido e antiromantico, che riconosciamo la cifra assoluta e il fuoco ideale di Osborn pur entro una duttilità di stile dimostrata entro l'ampio arco canoro ottocentesco tracciato dal programma: dal Nemorino dell'Elisir donizettiano, in delicato equilibrio fra il sapido comico con tanto di bottiglia di vino (in realtà the) e le tenui colorature patetiche (Caro elisir / Esulti pur la barbara, con climax nella celeberrima romanza dall'illuminante profilo tonale Una furtiva lagrima), alla tersa semplicità poetica di Elvino dalla Sonnambula di Bellini (Son geloso del zefiro errante). E ancora, restando nell'ambito del puro belcanto primo ottocentesco ma virando sul versante drammatico e nel solco del romanzo storico alla Scott, garantendo forza e fibra alle nervature più dense affidate al personaggio di Edgardo nel capolavoro per antonomasia del Donizetti "serio", Lucia di Lammermoor (Lucia perdona), per poi allontanarsi verso lidi più lontani e moderni con il Puccini di Bohème (Che gelida manina, O soave fanciulla) e il Gounod - con Rossini il traguardo più alto toccato nell'occasione da Osborn - del Roméo et Juliette (Ah! lève-toi soleil).

Per quanto con esiti ed accenti di volta in volta modulati secondo intenzioni differenti, la voce spettacolare di Osborn ha messo a segno alcune costanti di base quali la chiarezza della dizione e dunque un'intelligente valorizzazione della parola poetica con apici d'interazione fra significante e significato come nel caso del lessema palpiti nella furtiva lagrima, lasciato per un attimo in sospensione fra prima e seconda sillaba; quindi, la precisione assoluta dell'intonazione e la fermezza della voce fin verso le zone più impervie. Poi, la specialità dei suoi acuti: belli, splendenti, autentici e ben aperti, disegnati con un'arte della variazione tecnico-timbrica ed espressiva diciamo pure unica quanto assai mirabile, in grado di mutare colore e dinamica entro le spire delle vertigini melismatiche o di ampliare potenziando fino all'estremo il tessuto di una sola vocale in volo oltre il pentagramma. Sua compagna nella vita come nei duetti e in alcune arie in tabella di marcia, come si diceva in apertura, il soprano bolivio-americano Lynette Tapia: voce piccola e tinta da soubrette ma tecnicamente smaliziata seppure incostante nella tenuta dei passaggi e talvolta negli stessi acuti, pur ben piazzati per intonazione e posizione. Li accompagnava, al pianoforte, Betrice Benzi.

Si vieta la riproduzione dell'articolo e di ogni altra sua parte

SCARICA PDF

In primo piano
RSS Feed
  • Facebook Long Shadow
  • Google+ Social Icon
Recenti
bottom of page