Un impressionante, doppio muro di poliziotti in tenuta antisommossa fra la Galleria Umberto I e il porticato del Teatro San Carlo nei minuti antecedenti e negli spazi antistanti l'inaugurazione di gala della nuova Stagione lirica del Massimo napoletano. Un muro di caschi e scudi, a nostra memoria, sin qui inedito e comunque sovra misura a fronte di una piccola manifestazione di protesta, non come da tradizione contro pellicce o disoccupazione, bensì verso l'interno già affollato di spettatori, ospiti illustri e giornalisti assiepati su per il doppio scalone attorno alla realizzazione plastica dedicata a Rossini e firmata Marcos Marin, urlata da un gruppetto di ragazze dell'ex Opg "Je so' Pazzo" contro il governo nazionale Renzi (con lo slogan "Via di qua! Tanto il 4 dicembre il tuo governo cade") e contro quello regionale di De Luca per la relativa campagna a sostegno del sì al referendum costituzionale sulla riforma Renzi-Boschi proprio oggi al voto. Uno spiegamento di forze dunque non certo a tutela delle presenze istituzionali di rito e di casa, come quella del sindaco-presidente del Lirico, Luigi de Magistris (che all'ingresso ha ribadito il proprio dissenso contro le recenti dichiarazioni di Santoro e Saviano, sottolineando al contempo l'orgoglio per la libera protesta delle ragazze dell'ex Opg), o quella del governatore Vincenzo De Luca, del Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei ministri Paolo Aquilanti, dei sottosegretari Gennaro Migliore, Antimo Cesaro, del Prefetto Gerarda Pantalone, dell'ambasciatore italiano nel Regno Unito, Pasquale Terracciano. E neppure a tutela della milionaria mostra di gioielli griffata Bulgari esposta per due sere in teche blindate nel foyer storico in alternativa detto Sala degli specchi. Di straordinario e diciamo pure anomalo per Napoli, al San Carlo ma soprattutto per un Rossini raro, lungo oltre tre ore e per nulla di facile ascolto, c'era l'arrivo in Teatro della ministra per le riforme costituzionali Maria Elena Boschi, ospitata in prima posizione nel palco Reale, seduta accanto al presidente della Regione De Luca, inciampata per le scale su per la I fila nell'orlo del suo stesso elegante abito lungo e dalla scollatura profonda, ovviamente tempestata di flash e, al termine del primo intervallo, intrattenutasi con una vicina di palco speciale, la divina Carla Fracci (nella foto), anche lei come la dirigenza a favore del sì.
Ma, quella politica, è un'altra storia. Una storia che preferiamo lasciare fuori dall'intelligente scelta del titolo inaugurale per la stagione 20XVI/ 20XVII, dall'inaudita bellezza e rara centratura stilistica del primo cast di voci, dalla sapiente direzione, affidata a Gabriele Ferro, quasi dilatata e sospesa nel tempo per evidenziarne il dettaglio e la grande modernità: al centro e in primo piano, dunque, l'Otello di Gioachino Rossini, tragedia lirica in 3 atti su libretto del marchese Berio di Salza (proprietario del bel palazzo rosso di via Toledo oggi ad angolo con la piazzetta Augusteo ed ex proprietà della blasonata famiglia Perrelli) sui temi universali quanto ad oggi attualissimi dell'integrazione razziale e dell'uxoricidio, in scena con sei minuti di ritardo (così come nello splendido orologio del sottarco scenico mostrava il Tempo additando a luci ancora accese l'orario d'inizio previsto alle 20 precise, nella foto a sinistra) a 200 anni dalla composizione e dalla prima assoluta avvenuta il 4 dicembre 1816 al Teatro del Fondo e non al San Carlo a causa dell’incendio che aveva distrutto il Real Teatro nel febbraio del medesimo anno. Quindi di nuovo al Lirico a 149 dall'ultimo allestimento ottocentesco data l'inaudita assenza di riprese nello scorso secolo per il sorpasso dell'omonimo capolavoro, musicalmente così diverso e drammaturgicamente così distante creato dallo straordinario binomio Boito-Verdi settant'anni più tardi, nel 1887. Nell'occasione, gran parte delle aspettative erano puntate sull'esordio nella lirica del regista israeliano Amos Gitai, firma ideologicamente importante con più di cinquanta pellicole alle spalle (Kippur del 2000, Free Zone del 2005, Rabin, the last day del 2015), quindi sul nuovo allestimento per Napoli magistralmente realizzato dai Laboratori di Scenografia del Teatro San Carlo con scene e costumi rispettivamente dei Premi Oscar Dante Ferretti (nel 2000 per The Aviator di Martin Scorsese; nel 2008 per Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street di Tim Burton; nel 2012 per Hugo Cabret sempre di Martin Scorsese) e Gabriella Pescucci (nel 1994 L'età dell'innocenza, The Age of Innocence ancora di Martin Scorsese). Ferretti purtroppo assente alla première così come, d'altra parte, i due nuovi vertici dell'Orchestra della Fondazione Zubin Mehta (direttore musicale onorario) e Juraj Valčuha (direttore musicale effettivo).
Aspettative puntate e in gran parte deluse, e non solo a nostro giudizio stando ai booh per lui fioccati a fine spettacolo per lo più dai palchi delle file superiori, fra le eccessivamente scolastiche didascalie sulle fonti del testo in doppia lingua e le riprese delle migrazioni clandestine tratte dai suoi film proiettate rispettivamente in sovrapposizione scenica su velatino e sulle strutture interne alla pancia di una nave lignea ottocentesca al primo atto.
Assai felice e apprezzata, invece, l'idea di far cantare la Canzone del Gondoliero (III.1) elaborata sulla citazione dal V Canto dell'Inferno dantesco "Nessun maggior dolore | che ricordarsi del tempo felice | nella miseria" dal palco Reale illuminato da un fascio di luce bianca che con bel colpo teatrale ha tagliato il buio della sala (foto accanto) facendoci girare tutti verso quel punto.
Nel complesso, dunque, una soluzione visiva andata a sottolineare il viaggio e lo sbarco del moro accanto al suggestivo interno di un palazzo veneto con cambio a vista più azione mimata per secondo e terzo atto, laddove l'Otello verdiano ci aveva invece abituati al taglio totale dell'atto veneziano e allo sfondo esotico di una Cipro in cui l'azione s'incardina sull'odio politico e sulla gelosia erotica entro il triangolo Jago-Otello-Desdemona anziché su una rivalità prettamente amorosa fra Otello e Rodrigo per una Desdemona qui molto più forte con pallidi interventi di Jago e figlia su cui si scaglia la violenta maledizione del padre Elmiro, figura del tutto assente nelle altre metanorfosi del testo. (A seguire, le foto di Luciano Romano)
Il tutto con i costumi ideati al di là dello stile e del tempo, ma senza troppa efficacia, dalla Pescucci. Dell'allestimento? Si premiano pertanto essenzialmente le notevolissime scelte sceniche di Ferretti con relativa realizzazione dei laboratori sancarliani mentre, musicalmente, sorprendente e dunque forza motrice dell'intero spettacolo è stata la prova di un cast di voci eccellenti e nello specifico rossiniane di grande pregio, di viva tempra, perfettamente centrate per timbro (esatta la differenza fra i tre tenori Otello-Rodrigo-Jago) e intonazione, ferree per tecnica in ogni zona del rispettivo registro e negli svariati virtuosismi, piene nei volumi e, in special modo, perfette nelle relazioni intervallari degli assieme e nei concertati quanto nelle sfide a colpi di acuti come nel caso dei magnifici re naturali sparati nel Duetto fra i due tenori principali in campo: un bravissimo John Osborn (da non perdere quindi il suo recital dedicato alla lirica italiana con il soprano Lynette Tapia, sabato 10 per la concertistica al San Carlo) nel ruolo di Otello e un superlativo Dmitry Korchak per Rodrigo (nelle foto di Luciano Romano, gli interpreti Gatell e Korchak, Osborn, Machaidze).
Al centro, poi, la Desdemona del soprano georgiano Nino Machaidze, bella e veramente brava nel gestire, con abilità, potenza di emissione, dinamiche espressive e impegno melismatico. Ottimi anche gli altri interpreti in campo (Juan Francisco Gatell in Jago, Gaia Petrone per Emilia, Mirco Palazzi per Elmiro, Nicola Pamio per il Doge, Enrico Iviglia per il Gondoliere) così come meritevole la tinta sfoderata dal Coro della Fondazione, curato e diretto dalla quinta laterale di destra dal bravo Marco Faelli. Infine la direzione dell'Orchestra più Coro della Fondazione affidata allo specialista del repertorio rossiniano, ma al suo debutto in Otello, Gabriele Ferro, 79 anni appena compiuti (lo scorso 15 novembre), profondo conoscitore dell'organico sancarliano essendone stato direttore musicale dal 1999 al 2004, più volte ospite per prime importanti (Perséphone/Oedipus rex con la Rossellini e Depardieu, il Don Giovanni firmato Martone, la premiata Elektra di Kiefer), più un bagaglio di oltre 230 titoli alle spalle.
A lui il compito di valorizzare e tirar fuori le molteplici peculiarità di una partitura complessa, di sintesi e per non pochi aspetti avveniristica, in equilibrio sottile fra l'artificio del primo Settecento, la lucidità del pieno Illuminismo e la tragicità neoclassica del primo Ottocento. Dalla pregnanza metrico-ritmica alla nobiltà dei recitativi, dalla caratterizzazione dei brani strumentali al saldo controllo dell'intesa fra l'Orchestra in buca rialzata, come all'epoca di Rossini con relativa disposizione degli strumenti, e i protagonisti in palcoscenico sia nell'ampio respiro delle arie che nel piglio serrato dei pezzi d'assieme. Orchestra che, nonostante dal secondo atto sia andata avanti con uno anziché due oboi evidentemente per un problema tecnico non risolvibile, ha seguito al meglio il gesto e il pensiero del Maestro, con punte di eccellenza garantite dal primo flauto (Bernard Labiausse), dalle due trombe (Fabrizio Fabrizi e Alessandro Modesti), dal primo corno (Ricardo Serrano) e da un'arpa (Viviana Desiderio) dai candidi suoni nella bellissima Canzone del salice intonata al terz'atto da una toccante Desdemona. Ultima replica martedì 6 dicembre.
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