Due atti unici, bellissimi e in raro abbinamento quanto in singolare e impegnativa forma di concerto, entrambi nati a cornice degli anni Venti del Novecento ma l'uno, Der Zwerg (il Nano) di Zemlinsky, qui mai neanche ascoltato, fiaba tragica, grottesca ed estetizzante, di salda tempra germanica, dall'opulenza orchestrale "à la Mahler" e ancor più alla Richard Strauss; l'altro, Il tabarro, frutto armonicamente fra i più maturi del catalogo pucciniano e qui assente da oltre mezzo secolo, ispirato al Verismo noir scovato tra i bassifondi parigini e stilisticamente allineato con i più moderni esiti armonici d'Europa riconoscibili a partire dagli accordi dissonanti vuoti impiegati da Stravinskij. In comune, un venditore di canzoni, il trinomio di attrazione, repulsione e morte accanto a sentenze "cardine" rispettivamente individuabili nei versi che Ghita, cameriera dell'Infanta di Spagna, rivolge al Nano giunto in dono in maniera non dissimile dalla dannunziana schiava saracena in Fedra: "Dimmi, ti sei mai guardato nello specchio? | E' un baleno che dice la verità, | la nuda verità"; così come Michele, al culmine del tentativo di individuare l'amante della moglie Giorgetta, lapidario conclude: "La pace è nella morte" o ancora, in chiusura, "Tutti quanti portiamo | un tabarro che asconde | qualche volta una gioia, | qualche volta un dolore". Più spesso, il desiderio di sangue e un delitto. Siamo, cioè, dinanzi a testi che scavano fra psiche e simboli, fra malvagità crudele e inganno, fra l'ideale esaltante della bellezza immaginaria e il tragico squallore della vita reale. Dunque, dinanzi a partiture diverse ma parimenti grottesche, tese e vibranti, ad altissima temperatura emotiva e per nulla facili sul piano dell'interpretazione. A maggior ragione pertanto, oltre la premessa del coraggio e dell'originalità della scelta, nonché oltre il disagio dell'improvviso cambio sul podio che ha visto passare la bacchetta di un esperto del repertorio quale Stefan Anton Reck al comunque assai scrupoloso e sempre affidabile Maurizio Agostini, va subito detto che quanto ascoltato in occasione del bipartito capitolo di chiusura della Stagione lirica e di balletto 2015/2016 del Teatro San Carlo merita di essere senz'altro annoverato fra le esperienze d'ascolto più interessanti registrate negli ultimi calendari di eventi proposti in assenza di scene. In primo luogo per la qualità delle voci protagoniste in campo e, fortunatamente, per la buona intesa garantita fra podio e Orchestra della Fondazione.
(Nelle due foto, i ringraziamenti in chiusura dei rispettivi spettacoli). Relativamente all'opera di Zemlinsky, sottilmente autobiografica (alle spalle, l'infelice storia d'amore dell'autore per la bellissima Alma Schindler, femme fatale e futura donna di Mahler che in suo diario ebbe crudelmente a descrivere Zemlinsky come un "uomo piccolo, sdendato, senza mento e occhi a bulbo", quindi alimentandone un complesso sfociato nell'identificazione con il nano) e partitura per lo più al femminile (nove le voci soliste di cui solo due maschili più Coro di 36 elementi fra soprani e mezzosoprani della Fondazione curati da Marco Faelli), si premiano le bravissime protagoniste Nicola Beller Carbone (Donna Clara, Infante di Spagna) e Majella Cullagh (Ghita) accanto al vibrante basso-baritono Thomas Gazheli (Don Estoban) e, per lo più apprezzato nella miriade di effetti culminati nel monologo finale, al tenore Scott Mac Allister (Il nano). Dell'Orchestra, cui spettava intanto il compito di dipingere un intero arcobaleno di colori, si segnalano i meriti dei legni (Labiausse al primo flauto, il sempre eccellente Garreffa al primo oboe, D'Onofrio al primo clarinetto, Russo al primo fagotto), del primo corno Ricardo Serrano, dell'arpista Viviana Desiderio e si loda, in special modo, Miriam Dal Don, nell'occasione violino di spalla ospite.
Efficacissima a seguire la resa drammatica, per quanto in forma di concerto, del Tabarro pucciniano. Agostini, dopo la lucida tenuta delle redini in Zemlinsky, in Puccini ha evidenziato al meglio la forza e la tensione degli ampi archi dinamici unitamente alla profondità di tinte nei diversi gorghi espressivi. E così le voci, sorprendentemente plastiche e tecnicamente solide, scenicamente presenti e vivissime nello scolpire, ciascuna, la drammaticità del proprio ruolo: nell'ordine, tuonante il Michele di Rodolfo Giuliani, assai intensa la Giorgetta (in genere invece pallida per la natura stessa del personaggio) nell'efficace caratterizzazione vocale e gestuale di Amarilli Nizza così come il Luigi di Antonello Palombi, tenore di bella tinta che, rispetto a quanto da lui ascoltato nella recente Aida sancarliana, ha qui sfoderato un canto morbido, ricco di armonici e di nuances assai espressive. Buona nel complesso la prova degli altri interpreti, da Antonello Ceron (il Tinca) e Carlo Andrea Masciadri (il Talpa) a Clarissa Leonardi (la Frugola), da Mauro Secci (il venditore di canzonette) alla coppia di coristi del San Carlo formata da Valeria Attianese e Antonio Mezzasalma nella parte dei due amanti.
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