

Pubblico in piedi e un mare di flash al termine di un doppio, attesissimo recital che resterà nella storia fra i migliori capitoli della concertistica al Teatro San Carlo e, in assoluto, nell'Olimpo fra i modelli più alti di una lezione interpretativa esemplare per equilibrio e plasticità, longevità e lucidità, scolpita al centro esatto fra classicità apollinea e forza del sentire romantico, dimensione pianistica e sapienza orchestrale.
L'esordio di Daniel Barenboim (nelle foto di Francesco Squeglia), pianista e direttore d'orchestra fra i massimi del nostro tempo dunque per la prima volta sul palcoscenico del Lirico a ben 74 anni compiuti (e non 64 come comparso su altra testata unitamente al solito inciampo consonantico sul cognome) dopo un'assenza di sessanta da quell'unica sua esibizione avvenuta al "San Pietro a Majella" con il Quarto di Beethoven, va riconosciuto intanto come il bel risultato messo a segno dall'attuale sovrintendenza cogliendo al volo il desiderio espresso qualche tempo fa dallo stesso maestro di origini israeliane quando, nell’uscire dai ranghi scaligeri, aveva detto scherzosamente in merito alla sua clamorosa assenza dalle cronologie del San Carlo: «Vi andrei persino a suonare il mandolino».

Quindi, il messaggio sempre da lui scritto ma stavolta direttamente indirizzato alla sovrintendente Rosanna Purchia e a commento dei suoi due recital sancarliani: "Tu e Napoli mi avete accolto come meglio non sarebbe stato possibile. Grazie e a presto - firmato - Daniel”.
Quella sua mano sul cuore e l'abbraccio teso verso il pubblico entusiasta e plaudente, l'emozione palpabile fra il palcoscenico e un Teatro stracolmo, la densità del programma sia nella varietà delle premesse che negli esiti spettacolari e, ancora, quei due bis generosamente regalati agli spettatori napoletani (in occasione del concerto pomeridiano, il delizioso Allegretto quasi andantino dalla Sonata D. 537 di Schubert eseguita la sera prima più, dopo tante note, un folgorante Studio op. 10 n. 4 di Chopin) ci hanno poi confermato quell'atmosfera speciale e raccontato il resto. A cominciare da un taglio analitico e stilistico a lama pura e lucente in primo luogo garantito dal particolarissimo strumento da lui impiegato, il Barenboim-Maene Grand Piano, pianoforte progettato in collaborazione con la Steinway e a suo nome, con la peculiarità di una disposizione delle corde dritte e quindi non come da regola incrociate e con cassa in abete ideata secondo le modalità di uno strumento ad arco per effetti che traducono in adamantina trasparenza suoni, armonie e colori. (Sotto, nella foto di Francesco Squeglia, Daniel Barenboim con l'israeliano Amos Gitai, regista dell'Otello di Rossini inaugurale)

Di qui l'esaltazione in concreto e sempre leggibile del suo pensiero musicale, degli snodi strutturali e dei diversi rilievi ritmici o fraseologici, delle intenzioni di stile con relativi rinvii ai modelli di riferimento, Beethoven in primis nel caso di Schubert, accanto all'autenticità delle linee timbriche nei diversi piani sonori, dei legati (al minimo l'uso del pedale) e nei molteplici segni di espressione mai eccessivi o in sovrapposizione ridondante. Dall'opulenza elaborativa delle due Sonate di Schubert in ascolto (D. 575 e D. 959) ha così distillato spunti minuziosi e diversi, rotondi e salottieri, ora tersi e fluenti, vivaci nel piglio coreutico come nel contrasto dinamico fra le due mani, dalla teatralità gestuale sopratutto nei finali. Così come d'inaudita luce e trasparenza è risultata la Prima delle quattro Ballate di Chopin al termine della quale ha chiesto al pubblico di non fare fotografie con i cellulari «primo, perché vietato, secondo perché fa male agli occhi e terzo - ha ribadito svelando tanto del suo umorismo ma anche del suo buon carattere dinanzi ad una persistente suoneria trillante proprio durante il suo Chopin - perché vi impedisce di applaudire».
Infine due efficacissimi quanto opposti volti del Romanticismo in Franz Liszt, difficili entrambi: quello prossimo al sublime toccato attraverso la tragicità estatica di Funérailles, settima delle Harmonies poétiques et religieuses, a nostro avviso vertice assoluto dell'intera performance, e quello innervato dal rapinoso virtuosismo in odore di zolfo del Mephisto-Waltz n. 1, stretto e a segno, con bella prova di resistenza, fra spire seducenti e satanici mordenti.
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