Una commedia per musica di quasi tre ore che corre velocissima lungo il filo del suo irresistibile ritmo teatrale, scolpita entro il ventaglio tanto simmetrico (4 più 4) quanto variegato di personaggi fra tipologie drammaturgiche, stili retorici e formule lessicali divaricate. Il tutto, con un pizzico di mistero e magia, fra espliciti richiami goldoniani, alla luce della più sapida tradizione della farsa partenopea e, in più, gli strali in parodia verso le mode filosofiche antiquarie, l'attrazione per i mondi arcadici e il verso a quei pentagrammi dell'Orfeo della riforma già presi abbondantemente di mira sempre dal Paisiello, ma con l'abate Lorenzi più l'ingegno del Galiani, esattamente dieci anni prima con il parimenti irresistibile Socrate immaginario. In più, sul libretto del particolarmente fecondo Giuseppe Palomba, si è in presenza di una partitura deliziosa in ogni suo luogo, dal recitativo alla pagina strumentale, con arie costruite ad arte e assai difficili, concertati scoppiettanti e impervi scioglilingua in dialetto d'epoca smitragliati dal buffo caricato don Gasperone. (Nelle foto di Luciano Romano, in apertura: Filippo Morace in Don Gasperone e Maria Grazia Schiavo in Eufelia; sotto da sinistra: Daniela Mazzucato in Madama Bartolina, Giorgio Caoduro in Don Piastrone e Caterina Di Tonno per Rubinetta)
Vale a dire: da non perdere assolutamente, quale esempio della più arguta Napoli musicale dei Lumi a un passo e purtroppo al tramonto con la Rivoluzione del 1799, La grotta di Trofonio di Giovanni Paisiello (1785), una rarità in scena in queste sere per il San Carlo al Teatro di Corte di Palazzo Reale (in replica fino a martedì 22 novembre) nell'efficacissimo allestimento co-prodotto con il Festival di Martina Franca e titolo comico posto in chiusura nell'anno delle celebrazioni per i 200 anni dalla morte del compositore tarantino (1816 - 2016). Ribadiamo: un repertorio culturale ad alta valenza identitaria che, accanto a quello serio e al filone delle Serenate nate per celebrare la stirpe borbonica, auspichiamo in misura crescente nella locandina del Lirico napoletano in special modo in tale, perfetta Sala Reale (nella foto).
Tre i pilastri di grande forza della produzione: la regia di Alfonso Antoniozzi con le scene di Dario Gessati e i costumi di Gianluca Falaschi inventano una prospettiva scenica unica ma di rara intelligenza proiettando l'ambientazione in un primo Novecento, astratto e cangiante, che accoglie in sé tanto l'antico mondo dell'Ellade che situazioni da commedeja, gestualità eduardiane e del paglietta alla Nino Taranto, facendo muovere e intersecare la narrazione, le epoche, i luoghi, i personaggi e le relative dinamiche su grandi libri aperti praticabili. Libri le cui pagine, sfogliandosi, non solo di volta in volta alzano le diverse scene a siparietti dipinti ma, al contempo, consentono l'entrata e l'uscita a sorpresa dei protagonisti attraverso impercettibili in quanto elastici tagli sulle tele (impressionante la coincidenza con la notizia arrivata stamattina di un taglio sulla preziosa tela di palcoscenico al San Carlo con il Parnaso del Mancinelli, tra l'altro di recente restaurata, pare dovuto ai danni dell'antincendio scattato per errore) che rinviano ad ulteriori siti, magica grotta di Trofonio dell'oblio e del ricordo in primis. (Sotto, nella foto di Luciano Romano: Giorgio Caoduro e David Ferri Turà nel ruolo di Artemidoro)
Secondo punto, un cast di voci eccezionali: partiamo dal ruolo caratteristico in vernacolo che fu del mitico Casaccia, Don Gasperone, mercante napoletano "di cuojo, giovane sciocco, ed idiota", emblema del borghese arricchito e ignorantissimo, strepitoso nel suo funambolico napoletano di provincia fitto di trovate divertenti, sia nel contenuto che nel taglio fonico-ritmico, a partire dall'esordio in cui narra del suo sonoro arrivo con relativa dichiarazione d'intenti: "Al mantracchio mme mmarcaje | 'Ntra guagliune e peccerelle | 'Nnante museca portaje | De tammorra e castagnelle | Passaie Niseta e Mellena | Mare chiaro, e Mare muorto | E mo voglio piglià puorto | Nenna mia vicino a te". A darvi forma, gesto e voce ideali è il basso-baritono Filippo Morace, interprete oggi in vetta ad ogni classifica per tale repertorio. Diverte e si diverte, raggira e a sua volta è raggirato, buffissimo scenicamente quanto impeccabile e sonoro vocalmente. A suo contrasto, il lessico forbito e di memoria metastasiana del "giovane furbo ma all'apparenza serio" Artemidoro, qui interpretato dall'assai bravo David Ferri Turà e dipinto come un gagà. A seguire e con loro in coppia e a scambio, le due figlie di Don Piastrone, "negoziante italiano, uomo ignorante e fanatico per la filosofia", efficacemente interpretato da Giorgio Caoduro con chiari link alla teatralità di Eduardo: sono la grande Sonia Prina (appena ascoltata nell'Achille in Sciro di Sarro) e la sempre bravissima Maria Grazia Schiavo (prossima Lucia), rispettivamente Dori (in alternanza ci sarà Benedetta Mazzucato) ed Eufelia "donzella fiera e letterata", ben giocate per lo più in coppia e dunque valorizzate nella diversità complementare delle pirotecnìe tecniche e nelle rispettive tinte espressive. Vivace contraltare di Gasperone è stata Caterina Di Tonno nel ruolo di Rubinetta, presente per lo più in tandem con Daniela Mazzucato, nell'occasione l'astuta ballerina Madama Bartolina e ancora una volta confermatasi soprano di bella tempra sia scenica che canora ricordandola sin dalle prove virtuose al San Carlo per Valencienne nella Vedova allegra di Lehár addirittura nel 1985 (poi nel 1991), quindi in Euridice per il capolavoro di Offenbach (1989). Infine, per il filoso-mago Trofonio, personaggio (con relativa grotta) realmente esistito stando alle fonti classiche e divenuto celebre per aver costruito con il fratello Agamedes il tempio di Apollo a Delfi, un basso del grande repertorio del melodramma
ottocentesco quale Roberto Scandiuzzi (nella foto a destra), voce tonante ma che sa entrare perfettamente nel girone buffo vestito com'è, tra l'altro, a metà via fra un pastore errante dell'Ellade e un monaco del monte Athos.
Terzo e non per questo ultimo merito, il ritmo dettagliato e travolgente spinto dallo specialista del Settecento musicale Alessandro De Marchi, dopo l'Achille di Sarro di nuovo sul podio alla guida dell'Orchestra del Teatro San Carlo. Ritmo talvolta perso, invece, dalla scrivania di comando nella giusta proiezione dei pur sempre fondamentali sovratitoli. A partire dalla scelta dei metri alla cura dei recitativi (ancora una volta si apprezza Pierfrancesco Borrelli, maestro al cembalo, così come, qui e nei pezzi d'assieme, Ermanno Calzolari al primo contrabbasso), alle molteplici vertigini dei numeri chiusi con archi guidati al meglio dalla spalla ospite Myriam Dal Don. E fino a una vivacità delle dinamiche e dei colori mirata non solo all'esaltazione del dettaglio ma, costantemente, alla consapevole quadratura fra la plasticità del segno drammaturgico e le straordinarie peculiarità di uno stile musicale che tanto anticipa il prossimo Mozart quanto il futuro Rossini.
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