Una vera punta di diamante e uno fra i tanti esempi dell'alto pregio compositivo di Scuola napoletana tratti dall'opera che, il 4 novembre del 1737, inaugurò il Teatro San Carlo di Napoli. È l'aria col da capo "Sembra che al cor la speme dica" che il soprano nei panni dello sposo promesso e già tradito Teagene (qui affidato a una bravissima Lucia Cirillo) canta nella scena terza del III Atto dell'Achille in Sciro di Metastasio su musica di Domenico Sarro sublimando, attraverso messe di voce spettacolari e in gioco con le non meno straordinarie imitazioni variate dell'oboe obbligato (nell'occasione disegnate con sonorità e sensibilità davvero superlative dalla prima parte sancarliana Hernan Garreffa), il conflitto tra la legittimità di possesso e la consapevolezza dei veri sentimenti di Deidamia, amante a sua volta riamata dal protagonista del titolo (nella foto, prima e terza carta dalla copia manoscritta - manca sia la musica autografa che il libretto a stampa - della partitura conservata presso la Biblioteca del Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli).
Se non altro per la possibilità di averne assaggiato, oltre quest'aria letteralmente a giusto merito sommersa di applausi, la bellezza della musica e le vertiginose colorature canore dei 24 numeri chiusi con Cori e Balli a liason d'Atto, va premiata l'idea di riportare al San Carlo il primo titolo che risuonò fra quelle gloriose mura volute da Carlo di Borbone del quale, questa l'occasione primaria, si celebra quest'anno il terzo centenario dalla nascita. Iniziativa da premiare nonostante sia stata ascoltata dopo 279 anni di assenza su quello stesso, primo palcoscenico con arie scorporate dai rispettivi recitativi e velocemente impilate una in fila all'altra (senza possibilità di applausi con la sola eccezione dell'aria citata dove il pubblico, grazie al Cielo, ha preso il sopravvento) ma in via inedita collegate con poche battute in recitativo parlato assegnate al comprimario Nearco - qui trasformato in historicus e dunque in primo piano narrativo con la forza della voce recitante di Mariano Rigillo - secondo un forma assai lontana dall'originale che il San Carlo prima o poi meriterà. Pertanto, non per la lirica ma per la sinfonica, il San Carlo ha voluto riproporre il titolo nella selezione e revisione critica della partitura a cura di Ivano Caiazza (autore dell'edizione che nel 2007, meritoriamente, fu portata integralmente in scena al Festival di Martina Franca) in una libera e comunque sapiente formula drammaturgica ridisegnata da Filippo Zigante.
Il risultato è stato qualcosa di simile ad un'opera-oratorio in relativo formato pocket, nonostante la durata di quasi tre ore, con videoproiezioni per lo più pertinenti (se si esclude il didascalico arrivo della triremi) di cui abbiamo apprezzato la rarissima testimonianza plastica dell'Ulisse tratto dal gruppo marmoreo dell'accecamento di Polifemo che, nel primo quarto del Novecento, fu ritrovato nella grotta di Tiberio a Sperlonga e oggi è visitabile nel relativo Museo.
Un format tra l'altro composito perché introdotto dall'apparizione nel palco reale di un figurante nel ruolo del sovrano con relativo seguito di Corte (foto a destra), da un'Ouverture Royale firmata Porpora più un inno borbonico per Coro di Pasquale Cafaro tratto da una Cantata celebrativa eseguita appunto in coincidenza con il giorno natalizio di Carlo III. Quindi, la partitura di Sarro: bella, costruita con grande sapienza e a specchio delle impareggiabili possibilità canore degli interpreti, castrati in primis, dell'epoca. Nell'ordine di qualità, notevolissime le prove messe a segno in primo luogo dalla Cirillo come si è detto per Teagene e dal soprano Raffaella Milanesi nel ruolo di Deidamia, voce lodevole per timbro, tecnica ed espressione. Quindi dalla temperamentosa e sempre salda Sonia Prina, versatile registro di contralto per Achille/Pirra, e dal soprano Francesca Lombardi Mazzulli che bene ha tenuto testa alla sua parte di alto virtuosismo. Meno convincente quanto portato al traguardo dalle due voci tenorili, Enrico Iviglia, per un Licomede di buona tinta e bel fraseggio ma dal volume limitato, e Francesco Marsiglia (Ulisse, in tale rilettura eletto a personaggio-chiave), anche lui di bel colore ma affaticato assai negli impervi virtuosismi in zona medio-acuta.
Serrata e al contempo ben curata sia negli accenti che nella dinamica la direzione dal podio di uno specialista del repertorio quale Alessandro De Marchi, con esiti di primo livello nella solidità degli archi guidati da una validissima spalla ospite quale Marco Mandolini e, oltre il mirabile tributo del già citato primo oboe, in un basso continuo di cui si premiano almeno i fagottisti Mauro Russo con Giuseppe Settembrino e, a uno dei due cembali, Pierfrancesco Borrelli. Bravi gli allievi della Scuola di Ballo del Lirico napoletano oggi diretta da Fournial nell'efficace e raffinata coreografia di Fabio Gison, qualche disagio metrico si è avvertito invece nelle cornici del Coro mentre, migliori, potevano essere gli interventi esterni dell'Orchestra su base pre-registrata.
Al termine, una riflessione: perché considerare normale la fruizione di titoli da oltre tre ore come quelli wagneriani che neanche ci appartengono, o azzardare un Novecento come il Nano di Zemlinsky prossimamente in locandina (17 e 18 novembre) con il Tabarro pucciniano e magari sentirsi da meno (quindi riformulando e correndo, tagliando qua e là) un repertorio barocco o settecentesco qualitativamente meraviglioso oltre che dalla spiccata valenza identitaria della nostra storia letteraria, musicale e teatrale? L'auspicio è pertanto sentire e vedere presto per intero, così com'era, l'Achille in Sciro di Sarro e, magari, riappropriarsi stabilmente delle tante opere serie, delle commedie per musica e anche di qualche capolavoro - da Alessandro Scarlatti (si provi a sentire le poche arie incise dal Prigioniero fortunato) a Cavalli (primo autore alle origini dell'opera nel polo vicereale partenopeo) o a Vivaldi (si pensi alla bellezza della Verità in cimento) - sulle scene di un Teatro nato e divenuto modello di riferimento in Europa con le mille invenzioni drammaturgiche e sonore di quel Barocco e dell'intero Settecento musicale.
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