Qui a Napoli lo abbiamo apprezzato da sempre per la sua danza ben salda ed energica, forgiata con rigore esemplare dalla Scuola sancarliana di Anna Razzi e messa a segno nella Compagnia della Fondazione con risultati importanti fra stili coreografici disparati, dagli esordi nel contemporaneo con Tracce di luci nell'aria di Joseph Fontano al Bournonville del capolavoro Napoli, dalla vivacità demi-caractère del Mercuzio in Romeo e Giulietta al mediterraneo moderno firmato Bigonzetti. E fino a seguirne i voli oltre la compagine coreutica del Lirico napoletano, in alcune delle realtà più significative d'Italia, d'Europa o dell'America Latina. Poi, la svolta verso il canto grazie, naturalmente, alla specificità di un innato talento artistico ma, soprattutto, alla scoperta e sapiente valorizzazione operata da Christina Pluhar e dal suo gruppo sperimentale barocco, con esaltanti performance accanto a miti della vocalità dell'era dei castrati quale Philippe Jaroussky, Cecilia Bartoli o del genere di consumo quali Lucio Dalla, Franco Battiato, Gianni Morandi. Quindi, l'inedita reinvenzione di un approccio al repertorio targato "Soqquadro Italiano" al fianco di Claudio Borgianni, volando dalle antiche canzoni del Cinque e Seicento per arrivare alla migliore popular music italiana dei nostri giorni attraverso un lavoro di ribaltamenti e di innesti oltre confine. Ed è in tale ultima prospettiva di stile che abbiamo ascoltato Vincenzo Capezzuto in qualità di cantante per la prima volta qui a Napoli, dal vivo - già ne conoscevamo le diverse incisioni in vetta alle hit internazionali - su proposta della Stagione della Pietà de' Turchini di Marco Rossi e Federica Castaldo in collaborazione con Galleria Toledo. Occasione preziosa per poterne ascoltare e apprezzare pienamente la particolarissima vocalità in una Villa Pignatelli purtroppo non affollata, come l'evento avrebbe invece meritato, data la concomitanza con il Piano City di piazza. Quella di Vincenzo Capezzuto? È una voce "fenomeno": non costruita ma governata ad arte, libera e curatissima nei gesti canori al pari di un corpo danzante, perfettamente distillata nel metro, nel ritmo come nella varietà delle dinamiche. In sintesi, una voce d'incanto, nell'occasione sostenuta o attraversata in contrappunto dalle linee strumentali dei bravi Luciano Orologi (al sax, clarinetto basso e diamonica) e Simone Vallerotonda (alla tiorba e chitarra barocca). D'incanto perché vera e naturale, unica per la tinta chiara e dolcemente dorata, ma di tempra piena quanto fluida nell'estensione e nei rimbalzi coreutici in grado di portarlo a viaggiare con agilità estrema fra i generi, contaminando gli stili alla luce globale di una rara coerenza tecnico-espressiva.
Il suo viaggio, introdotto dall'ascolto di una Ciaccona seicentesca, ha quindi toccato luoghi ed epoche distanti, reinventando Il cielo in una stanza di Gino Paoli e scolpendo a meraviglia tanto la vocalità popolare cinquecentesca di "Amare, mentre è il tempo", composta da Enrico Radesca da Foggia, quanto il sublime canto seicentesco di Barbara Strozzi (Che si può fare), dell'operista Cavalli (È rimedio al mal d'amore) o del geniale Monteverdi (l'insuperabile sezione centrale del Lamento della ninfa qui in overcross all'interno di una Cantata degli amanti traditi). O ancora, passando con disinvoltura dal Seicento della canzone di anonimo "Occhi belli" ai nostri giorni con "Non credere" di Mogol-Soffici e fino a "Mi sei scoppiato dentro al cuore" di Wertmüller-Canfora. Al termine, applausi caldissimi e un paio di bis (l'anonima Vurria ca fosse ciaola più la ripetizione di una delle canzoni in programma) dal repertorio popolare antico, ad esaltazione e conferma di una genuina sensibilità per natura e per colore, a nostro avviso, fin qui senza pari.
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