Abituati al Romeo e Giulietta di Prokof'ev nelle versioni coreografiche firmate da Nureyev, Cranko o MacMillan-Deane, la ricostruzione storica fattane da Mikhail Lavroskij sull'originale del padre Leonid contestualmente alla genesi del balletto e proposta fino ad oggi per sette sere al Teatro San Carlo con doppio cast di protagonisti, interessa senz'altro nelle premesse e nel dettaglio storico, parzialmente convince nelle scelte mentre, nel complesso, scivola superficialmente lungo una veloce rilettura musicale affidata ad Aleksej Bogorad e che, buoni accenti e strani tagli a parte, è finita col mangiarsi via gran parte della poesia e dell'incanto di uno dei massimi capolavori della letteratura coreutica.
Tutto ha inizio con un fermo immagine che ritrae i giovani amanti di Verona - Leonid Sarafanof con Olesja Novikova (nella foto, in alternanza con la coppia Alessandro Macario-Anbeta Toromani) - nell'unione del matrimonio "clandestino" celebrato da frate Lorenzo (Marco D'Andrea). Da lì una catena di quadri singolarmente divisi da siparietti o da veli a tendaggio sullo sfondo di una scena semplice quanto efficace: piazzale all'aperto, salone da ballo o giardino che sia, resta il perno di un balcone che è luogo d'incontro come infine di morte fra gli amanti mentre, sullo sfondo, campeggiano le suggestioni dei bei dipinti veneti dell'Italia umanistica e, in campo, i costumi dell'allestimento dell'Opera di Roma. Fra i momenti migliori dell'operazione Lavroskij andata a recuperare quanto portato in scena all'allora Kirov di Pietroburgo sotto la supervisione dello stesso compositore Prokof'ev, si segnalano le scene d'assieme e "di carattere" (con un pizzico di Russia) che scavano fra le radici popolari delle danze cortesi e le fonti letterarie italiane intorno alla tragedia shakespeariana per antonomasia. Vale a dire la danza in casa Capuleti, la danza delle spade e una tarantella alla Napoli di Bournonville che, al di là della prescritta danza del popolo come in realtà da partitura, va dritta e significativamente a collegare l'ispirazione del Romeo e Giulietta di Shakespeare con una prima, probabile fonte campana quale la quattrocentesca novella di Masuccio Salernitano dedicata al Duca d'Amalfi. Ottima la prova del Corpo di Ballo del San Carlo curato dal maître de ballet Lienz Chang anche se, non sempre, a proprio agio con le velocità staccate dal podio senza troppo pensare al respiro coreutico. Relativamente ai solisti, il pubblico ha applaudito la coppia Novikova-Sarafanof che tuttavia, pensando già solo a quanto messo a segno sulle stesse assi dalla toccante Giulietta di Ambra Vallo o del Romeo di George Iancu, Roberto Bolle e Giuseppe Picone, ha sfoderato buona tecnica ma nulla di più. La Giulietta della Novikova, fisicamente affatto acerba come invece il ruolo richiederebbe, vantava in compenso di buone punte e ottimi giri; il Romeo di Sarafanof, notevole agilità ma eccessiva evanescenza. Entrambi, emotivamente, piuttosto pallidi e neanche aiutati dalla disarmante semplicità di elaborazione dei loro pas de deux. Ben scolpiti sul fronte tecnico-espressivo, d'altro verso, gli altri personaggi: il Tebaldo del sempre convincente Edmondo Tucci, il vivace Mercuzio del bravo Carlo De Martino, l'efficace Benvolio di Salvatore Manzo. Mentre, in orchestra, apprezzate le percussioni con gli ottoni in primo piano e l'arpa, impeccabile, di Antonella Valenti. Qualche perplessità la generavano invece la datata gestualità drammatica in stile "Corazzata Potëmkin" dei ruoli pantomimici, la spezzatura in quadri e taluni interventi emersi da un'Orchestra (con una spalla che, ad oggi, non ha ancora la percezione dello stile) per lo più spinta verso l'unico traguardo del dinamismo e degli accenti.
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