Ironica e ipnotica, di rara efficacia nella preziosa gestualità narrativa quanto lavoratissima nei dettagli in sinergia fra i piani dell’espressione, del ritmo e di un’impervia tecnica classica rivista in chiave moderna. Vale a dire che la magia della Coppélia di Nuitter e Saint-Léon sulle musiche deliziose di Léo Delibes, nella versione dell’affabulatore coreutico per antonomasia, Roland Petit, resta intatta nell’alchimia del suo smalto ad oltre quarant’anni dalla creazione sfoderando una bellezza di vivacità inossidabile in grado di vincere il tempo, così come bene attestano le tre riprese napoletane datate 1977 con lo stesso Petit nel ruolo del misterioso dottor Coppélius, 1998 (con il grande coreografo in sala) e 2016 con l’erede Luigi Bonino (a destra con Anbeta Toromani, nella foto di Luciano Romano) straordinario interprete in pari ruolo quanto arguto artefice, in entrambi i due ultimi allestimenti, per la ripresa di una coreografia ormai entrata a far parte dell’immaginario collettivo e, a pieno titolo, nell’albo d’oro della Storia. Ed oggi che la Coppélia “cult” di Petit è tornata al Teatro San Carlo per la prima volta in assenza del suo magnetico autore-narratore scomparso nel luglio di cinque anni fa, con nuovi solisti, una Compagnia radicalmente rigenerata ma con quello stesso filo conduttore tenuto stretto dal suo pupillo Bonino e dopo l’importante sdoganamento di altre sue coreografie a Compagnie esterne (sancarliana in primis) accanto al successo sulle stesse assi partenopee di titoli quali Chèri, il Gattopardo e l’acrobatico Duke Ellington, se ne apprezza forse ancor di più l’intelligenza, il gusto capriccioso e la genialità di trovate quali il passo a due con la bambola, la simmetria e lo scatto delle marcette, la chiarezza dei simboli, la delicata commistione delle tecniche, la riflessione sulle tematiche di un amore che insegue ciò che non possiede, sull’infatuazione senile, sullo svanire dei sogni.
Ciò premesso, l’altra metà dei meriti di uno spettacolo rimontato in queste sere al Lirico napoletano, applaudito meritatamente perché riuscito a meraviglia sotto tutti i punti di vista, spetta in misura paritetica a tutti gli artisti coinvolti. A partire, naturalmente, dal Coppélius del demi-caractère Luigi Bonino, elegante e al contempo comico-sentimentale in quel suo amore impossibile per la bella e giovane Swanilda che s’illude di vivere dando un soffio di vita illusoria all’automa che ne riproduce le sembianze. Ogni dettaglio, anche il più sottile dei suoi passi, movimenti, flessioni, espressioni e finanche del solo sguardo, risulta sempre chiarissimo, esatto quanto fondamentale ai fini della comprensione e dell’impatto emotivo. Nuova all’esperienza Petit era invece la coppia di solisti del primo cast: Anbeta Toromani (Swanilda/Coppélia) e Alessandro Macario (Frantz), perfetti entrambi nei rispettivi ruoli. Anbeta abilissima nel gestire, oltre all'originale rigidità nei panni della bambola, la continua alternanza fra linee limpide come il cristallo sfoderate in arabesque, attitude, brisè, giri e quant’altro accanto all’assai vivida tornitura di un’affabilità volitiva e capricciosa, a tratti dispettosa ma, sostanzialmente, spinta da un amore sincero e coraggioso. Quanto al ruolo maschile, non meno apprezzabile la ben nota capacità del napoletano Alessandro Macario (nella foto sopra a sinistra) nel gestire danza nobile e situazioni di carattere: esemplari i suoi grand jeté en tournant in manège e l'efficacissima mimica imitativa alle spalle dell’illuso Coppélius così come, per entrambi, il fuoco di artifici tecnici nelle variazioni e il divertente can-can finale.
Meno prevedibile e a maggior ragione sorprendente, invece, la forma smagliante saltata fuori dalla prova dell’intero Corpo di Ballo della Fondazione (sopra, nella foto di Luciano Romano) curato dal maître de ballet (e, nell’occasione, anche assistente alla coreografia) Lienz Chang: non solo precisione e sintonia estreme nelle file, nei passi ritmici, negli abbinamenti uomini/donne e nello “stile Petit”, ma soprattutto energia, bella sensibilità emotiva, cura per nulla comune del dettaglio dinamico-espressivo sia sul singolo che in riferimento all’assieme. Bravi davvero. Un plauso a parte spetta quindi alle amiche di Swanilda, Sara Sancamillo, Candida Sorrentino, Luisa Ieluzzi (che all’ultima recita sarà protagonista), Claudia D’Antonio, Martina Affaticato, Anna Chiara Amirante: sfiziose e vezzose, fresche e vivaci, deliziose nella tremarella (Anbeta Toromani in prima linea e loro dietro di lei) alla proibita scoperta dei misteri custoditi nel laboratorio di Coppélius (in basso, nelle foto di Francesco Squeglia).
Intorno, le scene rodate e i bei costumi di Ezio Frigerio più le luci di Jean Michel Desiré per l’allestimento dell’Opera di Roma. Mentre, dal golfo mistico, l’esperto David Garforth dal podio e l’Orchestra del San Carlo hanno brillantemente esaltato tempi, timbri e dinamiche (unico neo, l’amplificazione del “solo” del primo violino Pieranunzi che, almeno lui, bisogno non ne ha) incorniciate da quel suono registrato e un po’ distorto d’organetto che, rileggendo in una dimensione parigina alla “Montmartre” la musica di Delibes, ne svela à la manière del mago Roland Petit il doppio gioco fra illusione e disincanto.
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