È difficile restituire a parole l'incanto e le vibrazioni della preghiera dello Stabat Mater di scuola musicale partenopea - ossia quel capolavoro estremo di un ventiseienne Pergolesi, sepolto come più tardi Mozart in una fossa comune ma 280 anni fa ed esattamente in quel suolo più antico di Pozzuoli sotto ai nostri piedi, capolavoro composto per andare a sostituire la pagina ormai vetusta del primo vertice di pari Scuola, Alessandro Scarlatti, e in tale occasione ripreso nella versione che ne fece Paisiello nel 1810 per i 200 anni dalla sua morte - andate a risuonare con la forza di un emblema nell'oggi splendida Cattedrale del Rione Terra (nelle foto) fino a pochi anni fa sepolta tra la polvere e le macerie seguite all'incendio del 1964, ai fenomeni bradisismici successivi e ad una ancor più devastante incuria negli anni '80-'90. Fino al recente, lodevolissimo rilancio turistico-culturale che, riscoprendone le vestigia pagane unitamente al restauro dell'architettura barocca esaltata dai dipinti di Artemisia Gentileschi, Giacinto Diano, Fracanzano, Stanzione, Beltrano, Giovanni Lanfranco e alla riscoperta del sottostante itinerario archeologico, ha restituito una delle più rare gemme della storia non solo meridionale ma dell'umanità tutta. E sentire rafforzata quell'iniziativa di rilancio attraverso le note che sintetizzano il senso più alto dell'Arte napoletana, fra il significato di una partitura che in triplice battuta rappresenta la lezione partenopea (fra la traccia e il superamento del modello scarlattiano, l'originale del Pergolesi e la versione di Paisiello) la scelta di un'Orchestra - quella del Teatro San Carlo - erede di una responsabilità storica di primissimo piano nel Settecento europeo più la perfezione, su tutte, di una voce quale quella del soprano Maria Grazia Schiavo che è l'essenza stessa, ideale per tinta, pasta, espressione ed emozione, di quella gloriosa Scuola, è un evento che ha pochi paragoni. Ciò a dire che, quanto messo a segno la sera dello scorso Venerdì Santo dal sindaco Vincenzo Figliolia, dall'assessore alla cultura del Comune di Pozzuoli, Alfonso Artiaco, dal vescovo Gennaro Pascarella e, naturalmente, dal Teatro San Carlo guidato dalla sovrintendente Rosanna Purchia e dal direttore artistico Paolo Pinamonti, è qualcosa che ha reso ancor più importante lo stesso significato del Concerto straordinario per un'occasione spirituale altissima andata, tra l'altro, a recitare una toccante preghiera mariana e a ricordare, con un doveroso minuto di silenzio, le vittime del recente attacco terroristico di Bruxelles.
Un esito che, in sintesi, significa sinergia illuminata e promozione vera sia dei luoghi che dell'arte, sia della storia che dei massimi valori spirituali e culturali della nostra società civile. Detto ciò, impossibile non notare l'impegno dell'Orchestra della Fondazione, nell'occasione diretta dal sempre attento Maurizio Agostini, su una pagina sacra di non semplice lettura nella sovrapposizione fra la scrittura pergolesiana e la rielaborazione di Paisiello con conseguente aggiunta dei fiati e di quattro voci (Soprano, Contralto/Mezzosoprano, Tenore e Basso) sulle due femminili originali. Il tutto, nella revisione fattane negli anni Novanta da Giuseppe Camerlingo. Un'opera in cui ferma la scansione dei dodici numeri previsti dal capolavoro del Pergolesi, capolavoro in bilico fra storia e leggenda, fra il sublime della tradizione musicale sacra e le agilità canore del teatro d’opera profano ma, innanzitutto, ultimo e altissimo documento di riflessione dell’uomo e dell’artista Pergolesi commissionato dall’Arciconfraternita dei Cavalieri della Vergine de’ Dolori (perché ormai stanchi di ascoltare lo Stabat di Alessandro Scarlatti, eseguito da oltre un ventennio tutti i primi venerdì di Quaresima durante l’esposizione del Santissimo Sacramento “con edificante pompa”) e scritto negli ultimi giorni della propria esistenza nella cella del Convento fondato da Diomede Carafa dei Duchi di Maddaloni, poi donato ai Frati Minori Osservanti e in seguito riedificato nell’attuale casa circondariale femminile lungo la panoramica via Pergolesi. Così come intatto resta l'organico con soli archi e la voce di riferimento nel rispetto di alcuni suoi momenti migliori quale il Vidit suum dulcem natum (n. 6) del Soprano, il Fac, ut ardeat (n. 8) per Soprano e Contralto, il Fac, ut portem con il solo Contralto (n. 10). Lettura non semplice, si sottolineava, nel delicatissimo equilibrio fra le voci, i fiati concertanti e il complesso degli archi.
Partendo dall'Orchestra del San Carlo, la garanzia saltava fuori, a parte dalla cura dal podio (con scelte anche estreme come la “stravinskiana” introduzione dei fiati per l’Inflammatus di Soprano e Basso), innanzitutto dalla presenza, rispettivamente al primo violino e al concertino, di due archetti di non comune esperienza e valore: Gabriele Pieranunzi, da un lato, e il bravissimo Fabrizio Falasca al suo fianco, tra l'altro recente vincitore quest'ultimo del concorso di spalla dei primi violini alla Tiroler Symphonie Orchester di Innsbruck e addirittura dei ruoli di punta nella Philharmonia Orchestra di Londra. Non meno preziosi, quindi, gli interventi del primo flauto (l'eccellente Bernard Labiausse) in dialogo con le due voci femminili nella sezione d'apertura, dell'ottimo clarinettista Luca Sartori per il Quae moerebat, dell’oboista Domenico Sarcina nella sezione finale e, d’insieme, nei contributi sempre assai significativi del primo fagotto Mauro Russo, del primo corno Simone Baroncini.
Infine, i cantanti: la Schiavo, soprano magnifico per preparazione tecnica, qualità timbrica e duttilità espressiva, canta come un angelo. Limpida ma intensa, ieratica quanto di genuina tempra teatrale e, soprattutto, esatta voce per lo Stabat già di Pergolesi quindi di Paisiello quanto, in verità, per l'intero Settecento musicale napoletano sul quale ha da sempre forgiato le proprie corde e un'ampia gamma di "messe di voce" dalla delicatezza infinita. Apprezzabile la crescita anche del mezzosoprano Eufemia Tufano che ben ricordiamo quando, oltre vent'anni fa in una partitura firmata de Falla, neanche si sentiva. Interessanti oggi i suoi numeri sia in assolo che in duetto più, ovviamente, strumenti ma se ne auspica un ulteriore lavoro sulla duttilità e sugli armonici. Di promettente tinta rossiniana il tenore Leonardo Cortellazzi mentre di netta prospettiva verdiana, dunque estranea tanto a Pergolesi quanto a Paisiello, si rivelava il parimenti promettente basso Antonio Di Matteo. Scroscianti gli applausi, per tutti, al termine.
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