Considerate a parte le suggestioni di scena e di un’ultima regia ronconiana attente a pizzicare qua e là le scarne prospettive da Globe theatre shakespeariano quanto, al contempo, le spinte più moderne di una drammaturgia di parola atemporale, cogliendo così nel vivo la linea arguta degli azzardi stilistici messi a segno dall’ultimo capolavoro nato dal geniale tandem Boito-Verdi, il Falstaff visto e ascoltato in “prima” ieri pomeriggio al Teatro San Carlo di Napoli (foto di Luciano Romano) nella ripresa di Marina Bianchi con le scene di Tiziano Santi, i bei costumi di Maurizio Millenotti e la direzione musicale di Pinchas Steinberg, sarà senz’altro salvato in memoria per il pieno successo tributato, con giusto merito, ad un cast di voci qualitativamente vicino al miracolo. E sì, perché rarissima negli ultimi tempi, soprattutto entro l'altalenante giostra fra programmazioni artistiche e circuiti d’agenzia, risulta la convergenza fra il repertorio, la competenza e dunque la centratura dell’esatta cifra stilistica più quel mix speciale di volume, sensibilità e padronanza tecnica sull’asse articolato ed eterogeneo di un’unica compagnia di canto.
Al di là dunque degli esiti meramente teatrali, complessivamente ben funzionali con la sola eccezione di un’Osteria della Giarrettiera più simile alla soffitta bohèmienne di Rodolfo e Mimì che al rustico interno di una locanda fra Tre e Quattrocento britannico, straordinaria è apparsa sin dalle prime battute la resa di tutte le voci in campo, sia maggiori che minori. Una resa che intanto poggiava sul buon lavoro (se si esclude qualche lacerazione del tessuto nel concertato delle comari e nell’attacco della fuga buffa finale) operato dal podio e in lucida disamina di una partitura difficilissima dall’insigne maestro Steinberg fra il bel rilievo chiesto alle prime parti concertanti con gli interpreti in scena e le innumerevoli sottolineature onomatopeiche quali le risate strumentali di sottecchi, le quinte vuote dei fiati in assonanza con le tasche del panciuto scialacquatore Falstaff, lo svaporare dei flauti per l’aria che vola via dalla parola "onore", la temuta magrezza giocata fra il raddoppio dei celli sugli acuti sottili dei fiati a contrasto con il tronfio re bemolle maggiore a rimbalzo del maestoso addome, il tintinnìo delle monete e l’evidenziato aggancio ai non pochi squarci in richiamo al “Fuoco di gioia” dall’Otello, capolavoro ma di opposto genere, dei medesimi autori.
Partiamo quindi dal Falstaff di Roberto de Candia (nella foto a sinistra), baritono fra i più interessanti della sua generazione, pugliese per nascita (Molfetta) e dalla formazione eclettica, partito dagli studi di violoncello in parallelo al percorso universitario di economia e commercio più, ovviamente, il canto con i maestri Lajos Kozma e il mitico Sesto Bruscantini il cui nome ci riconduce dritto, pensando ai precedenti modelli applauditi al San Carlo, a un grande Falstaff nell’anno 1986 sotto la direzione di un giovane Oren. Ottimo rossiniano ma al pari apprezzato interprete per l'intero Romanticismo e Verismo più ovviamente il primo Ottocento (qui a Napoli lo abbiamo applaudito diciannove anni fa in un giovanissimo Belcore per l'Elisir donizettiano addirittura con Pavarotti), de Candia sfodera volume, duttilità di fraseggio e buona sostanza timbrica, armonici pieni, una sapiente intesa fra parola e suono (mirabili in special modo sia il suo monologo dell’onore al primo Atto che quello, magnifico, in apertura dell’Atto III), una buona dose di spavalda vivacità beffarda e nuances sinceramente malinconiche nella Ballata “Va, vecchio John”. Conciliando tra l'altro, in pratica e a meraviglia, le componenti antitetiche che al libretto d’opera derivavano e restavano dalla contaminatio fra i personaggi in profondo contrasto rispettivamente desunti dalle fonti shakespeariane dell’Enrico IV (Sir John Oldcastle) e dalle Allegre comari di Windsor (Falstaff, appunto), nonché le due linee autonome per quanto al contempo intersecate fra voce e pentagramma strumentale. E qui, quale perfetto alter ego sonoro del protagonista in palcoscenico, va premiato il contributo non meno elevatissimo per tempra, intonazione e tornitura del primo fagotto dell’Orchestra sancarliana, il sempre bravo e talentuoso musicista Mauro Russo.
Proseguendo entro la gerarchia dei ruoli maschili, non meno valoroso si è dimostrato l'altro baritono, l'argentino Fabian Veloz (a sinistra) nei panni di un Ford raggiratore e a sua volta raggirato dalle donne, disegnato nell'occasione con grande cura sia scenica che canora. Eccellente, a seguire, il tenore amoroso Fenton, interpretato da un poeticissimo Antonio Poli (nella foto sotto a sinistra) nato a Viterbo e formatosi a Roma, già superattivo nel panorama internazionale e
finanche in campo discografico con una rarità buffa quale I due Figaro di Mercadante diretta da Muti. Di puro incanto il suo duettino con Nannetta, "Bocca baciata non perde ventura", in rara affinità d'elezione con il canto trasparente, virtuosissimo e sublime, fino al rilucente la bemolle acuto, del soprano casertano Rosa Feola,
(sotto a destra) in carriera folgorante stando a quanto ricordiamo nel suo neanche troppo distante Campanello donizettiano al Teatro di Corte in versione caprese (di Riccardo Canessa) e sempre per il San Carlo. Un canto, all'interno dello stesso Falstaff, in interessantissimo crescendo di tecnica e raffinatezze timbriche. Bravi anche gli altri interpreti dei ruoli maschili restanti (il dottor Cajus del tenore Cristiano Olivieri, la comica coppia Bardolfo e Pistola rispettivamente affidata al tenore Bruno Lazzaretti e al basso Gabriele Sagona). Ulteriore bel colpo, quindi, con le comari Alice Ford e Meg Page, furbe e veloci, pungenti e operative: la prima, interpretata da una bella quanto brava Ainhoa Arteta, soprano originario di Tolosa (nella foto sotto a destra)
dall'emissione intensa e vivace, intonatissima, dalla tecnica canora smaliziata, scenicamente accattivante. Non a caso, partita dalle vittorie conquistate alle competizioni fra Metropolitan e Operalia Plácido Domingo, l'Arteta ha cantato ovunque nel mondo, Casa Bianca (in concerto) compresa. La seconda, parimenti ben messa a segno da un mezzosoprano italiano di notevolissimo pregio, Marina Comparato (nell'ultima foto), vantava vivo carattere unito ad una voce di bellezza e prodezza autentiche. Infine meritevole anche la Mrs. Quickly del secondo mezzosoprano, Enkeleida Shkoza.
Resta da segnalare l'apprezzabile prova del Coro della Fondazione e il tributo speciale venuto fuori dal golfo mistico grazie al talento di alcune delle migliori prime parti sancarliane in organico, quali il clarinettista Luca Sartori, l'oboista Hernan Garreffa, il cornista Ricardo Serrano, il già citato Mauro Russo al fagotto, il trombettista Giuseppe Cascone, il trombonista Sergio Danini, il percussionista Andrea Bindi, Gabriele Pieranunzi e Rosa Weisbrot rispettivamente alla guida di violini primi e secondi, il violista Luca Improta, l'ottimo violoncellista (occasionalmente saltato in prima posizione) Fabio Centurione, il contrabbassista Ermanno Calzolari.
Spettacolo insomma dalle dieci voci con lode, applauditissimo. Dunque da vedere e, soprattutto, da sentire. Si replica fino a domenica 20 marzo.
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