«Auguro a tutti un buon anno, per me iniziato con un brutto raffreddore. Un anno che possa essere all'insegna della polifonia e della cultura - ha esclamato il pianista iraniano Ramin Bahrami (nelle foto) dal palco napoletano dell'Auditorium di Castel Sant'Elmo rivolgendosi al pubblico al termine del suo nuovo recital per l'Associazione Alessandro Scarlatti e prima di regalare un paio di bis - perché, dove c'è cultura, non nascono le guerre» ha sottolineato distillando perle di saggezza dal sicuro effetto. Poi, ha concluso: «Dunque un anno con meno canzonette e più Bach, Scarlatti, più Giotto e Cimabue. E con meno falsi miti». Appunto.
Ramin Bahrami, fenomeno pianistico celeberrimo fra stampa e discografia portato in vetta alle classifiche internazionali per le sue personali interpretazioni bachiane che ricorderebbero quelle del mitico Glenn Gould, in occasione della sua ultima volta partenopea (sempre per la Scarlatti ma nel 2007) ascoltato con Orchestra in due Concerti del compositore da lui preferito deludendo però in gran parte le aspettive, portava stavolta all'ascolto un originale itinerario disegnato alternando pagine del napoletano Domenico Scarlatti e del tedesco Bach, con svariati riferimenti al nostro Paese pensando alle radici coreutiche della Giga della Suite inglese n. 2 o all'Aria variata "alla maniera italiana" e al Concerto nello stile italiano proposto in chiusura. Paese che, ricordiamo, ne ha varato la formazione artistica (si è diplomato al "Verdi" di Milano con un mentore speciale quale Piero Rattalino) nonché l'esordio concertistico, avvenuto diciotto anni fa al Bellini di Catania. Un itinerario che, in verità, ha messo a segno esiti opposti da quelli così poco rifiniti ascoltati nello stesso luogo quasi dieci anni prima. Pur tuttavia, convincendo a metà. Con il suo recital dell'altra sera Bahrami ha sfoderato infatti un Bach rigoroso, omogeneo e, come ormai noto, particolarissimo: d'indubbio interesse nel dinamismo dei ritmi, per la pulizia delle note, per la sostanza delle risposte affidate alla mano sinistra e, in generale, per il buon controllo nella dissociazione digitale, nell'autonomia fra destra e sinistra. Ma, purtroppo, con qualche brutto inciampo nelle riprese della Giga in coda alla citata Suite inglese e soprattutto, quasi a non ritrovare per qualche lungo istante l'appiglio giusto per la via d'uscita, nel tempo finale del Concerto italiano. Di qui le parole sul raffreddore che, senz'altro, deve aver inciso sull'integrità della prova. Ad ogni modo, lungi dallo sfiorare esiti adamantini quali quelli un po' folli del grande Gould, dell'ormai storico modello dell'americana Tureck o del più recente András Schiff, il suo Bach complessivamente è piaciuto, attraversando i tempi della Suite francese n. 5 con quella congenialità del tutto assente invece nei brani scelti dallo Scarlatti figlio affrontato in apertura fra l'Aria in re minore K. 32, assai bella ma eseguita in modo assolutamente non speciale, ed una Sonata (la K. 289) rigidamente tesa, a scatti, finanche violenta nelle chiuse in forte a contrasto con il piano. E, per di più, priva di quei colori e di quelle sinuosità partenopeo-ispaniche fondamentali nella scrittura dell'organista infilato sedicenne nella pianta dei Musici di Palazzo a Napoli dal padre Alessandro allora maestro della Real Cappella, quindi divenuto "clavicembalista di Camera di Sua Eccellenza" e riferimento fondamentale al passaggio della scrittura per tastiera dal clavicembalo al pianoforte. L'ottica, passando per la successiva Sonata K. 282 (con l'Allegro trasformato in Prestissimo e la scaletta da quattro semicrome stizzosamente strizzata) non cambiava di molto mentre, più interessanti, sono via via apparse la Sonata K. 319, la K. 278, con relativi, vorticosi ritmi di tarantella e la plastica evidenza data all'ostinazione motivica al basso e, in special modo, la "Caccia", K. 159. Della Suite inglese n. 2, escluso il Preludio che, per il supersonico stacco metrico scelto, ha fin quasi perso l'assetto, belli per rifinitura e sostanza i movimenti di danza successivi, l'Allemanda per suono, la Corrente per il lavoro sui dettagli, la Sarabanda più sostenuta che grave ma assai dolce di tinta, ben ritmata la prima Bourée I, di respiro accordale e quasi corale la Bourée II, quindi la fatidica Giga. Bel vertice di stile, infine, con l'Aria in la minore variata "alla maniera italiana" e sempre di Bach, chiusura con il Concerto italiano con coda pasticciata. A saldo, un paio di bis: una festosa Marcia persiana di Johann Strauss rivisitata per pianoforte dallo stesso Bahrami e l'Aria "gioiello" dalle Variazioni Goldberg, ovviamente di Bach.
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