Possente e altisonante nella tensione di un testo drammatico antico quanto capolavoro assoluto dell'umanità restituito riprendendone la cifra più autentica quanto, al contempo, riaggiornandone la fruibilità attraverso un intero arco di evoluzione delle tecniche di rappresentazione progressivamente attuate in campo. Grande è infatti l'impatto e la forza dell'Orestea di Eschilo, l'unica trilogia a noi giunta dall'era aurea della Grecia Classica in scena con la regia del direttore Luca De Fusco a partire dallo scorso 24 novembre e fino al 20 dicembre al Teatro Mercadante di Napoli quale spettacolo chiave della stagione dello Stabile oggi Teatro Nazionale. Anche se proposta nella duplice opzione della Trilogia intera o spacchettata in Agamennone più Coefore/Eumenidi, se ne consiglia vivamente la visione in un'unica continuità drammaturgica per comprenderne appieno i meriti di un'impresa immensa, non facile nello scolpirne la statuarietà e la viva attualità ad un tempo, per apprezzare la straordinaria tenuta e bravura di tutti gli attori in palcoscenico, per osservarne l'itinerario delle tecniche di rappresentazione, per cogliere l'intelligenza delle contaminazioni musicali e coreutiche andate a conciliare trasversalmente la cultura orientale e l'Occidente, archetipi remoti e prospettive della contemporaneità.
La scena si apre nel buio di un piano inclinato ricoperto di luccicante e nerissima sabbia lavica da cui, di volta in volta, si discopriranno figure e oggetti, elementi della narrazione ed emblemi del nostro tempo. In fondo, immensa, c'è la porta bugnata della reggia degli atridi e, al centro, l'attesa: l'attesa del ritorno del re Agamennone figlio di Atreo ed erede di una stirpe invisa agli dei per le colpe antiche e le vendette di sangue messe a segno a partire dalle radici del ceppo, dal beffatore degli dèi Tantalo e dal subdolo figlio Pelope, fondatore della regione del Peloponneso (Pélopos + nésos, l'isola di Pelope). Quindi, attraverso la generazione di Atreo e Tieste con relativo lugubre pasto, dall'atride Agamennone colpevole di aver sacrificato la figlia Ifigenia ed ora egli stesso preda del disegno omicida del cugino Egisto (unico sopravvissuto tra i figli di Tieste) e del gesto uxoricida della moglie Clitemnestra, una straordinaria Elisabetta Pozzi il cui ingresso, da quel portone, è accompagnato da un impressionante tremore fonico. Dalla staffetta dei messaggi di fuoco ai cammei coreutico-musicali che rievocano e sublimano le figure di Ifigenia e, poi, di Elena, dall'emergere della testa del cavallo di Troia allo sbarco, dopo i dieci anni trascorsi a combattere al fianco del fratello Menelao e sempre attraverso il medium efficacissimo dello scavo, dell'Agamennone magistralmente interpretato da Mariano Rigillo. Poi, le sentenze, vere e dure come macigni ("è nella natura degli uomini calpestare chi cade", "chi non è invidiato non è neppure ammirato") scandite con forza rara dalla Pozzi e sempre facendo attenzione a contaminare parola drammatica e intonazione metrica secondo quella insuperata unione fra le arti che lo spettacolo in scena cerca e restituisce secondo la sensibilità più vicina ai nostri giorni; quindi, dal pavimento, la luminosa linea di porpora che è tappeto e presagio della scia di sangue lungo l'ingresso del re nella dimora, l'arrivo della profetessa mai creduta Cassandra, primo dei due ruoli assegnati all'eccellente Gaia Aprea, il canto delle Erinni e, debitamente odioso, l'Egisto di Paolo Serra. Intorno, a partire dall'ottima traduzione dei testi di Monica Centanni, le scene di Maurizio Balò, i costumi come sempre perfetti di Zaira de Vincentiis, le belle coreografie dell'israeliana Noa Wertheim (interpretate dalle danzatrici della napoletana Compagnia di Gennaro Cimmino, Körper) e le geniali musiche di Ran Bagno, gli effetti di luce curati da Gigi Saccomandi, le magie di suono e voce rispettivamente realizzate da Hubert Westkemper e da Paolo Coletta, i video immaginifici di Alessandro Papa.
In Coefore, quindi, il cuore della storia, con la bella e delicata Elettra di Federica Sandrini e con l'Oreste (splendido l'incontro-agnizione dei due fratelli con le mani reciprocamente protese e lo scorcio partenopeo dal cimitero delle Fontanelle) scolpito ad arte dal bravissimo Giacinto Palmarini, con il feroce, duplice delitto degli amanti Clitemnestra ed Egisto, con l'intervento delle odiose Erinni capitanate da una strepitosa Angela Pagano.
Il ribaltamento in Eumenidi delle sorti dell'antica stirpe in cui sangue chiama sangue, dunque con l'istituzione di un tribunale di giustizia ad opera dell'Atena affidata a Gaia Aprea, la metamorfosi delle Erinni in benevole e l'assoluzione del matricida Oreste, trova nell'evoluzione delle tecniche di rappresentazione la propria migliore dimensione.
Il quadro si apre sulla comparsa di Atena in luminoso abito techno e con un canto sublime (voce realmente d'incanto, quella dell'Aprea) al centro di una statua in video divisa a metà: in parte alle origini della sua nascita dalla testa di Zeus, in parte il terribile riferimento, rafforzato dal successivo sbriciolamento, alle statue spaccate di Palmira e all'archeologo-eroe Kaled Assad cui, infatti, il titanico spettacolo è stato dedicato. Al termine, applausi vivissimi e meritati per i primi attori e per tutti gli altri artisti, entro ed oltre la scena.
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