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  • Paola De Simone

A riguardarla oggi, dopo tre anni con diverso cast e altra direzione dal podio, la Traviata di Verdi riletta dal pluripremiato regista Ferzan Özpetek per il Teatro San Carlo di Napoli si conferma spettacolo di raro impatto visivo quanto di moderna forza drammatica, in coerente ed efficace tensione fra la sensualità di turcheggianti esotismi liberty e le visioni rubate al cinema a partire da quell’immenso volto vivo della protagonista, proiettato in apertura sul siparietto, e fino ad arrivare ai flash visionari che ne accompagnano le ultime ore di malattia e solitudine. Vivide quanto esatte le scene del triplice premio oscar Dante Ferretti così come preziosi i costumi di Alessandro Lai. Intorno, a stringerne il senso e a svelarne le pieghe più autentiche, la direzione musicale dell’oggi ottantaquattrenne Nello Santi, attualmente riferimento più alto dal podio della tradizione lirica italiana. Con lui, via quel Mi bemolle5 al termine della prima grande aria di Violetta perché mai scritto da Verdi, più un intero ventaglio di metri, tinte e dinamiche in costante osmosi fra l’impegno in buca dei professori d’orchestra – fra i quali si lodano, su tutti, il primo clarinetto Sisto Lino D’Onofrio, il primo fagotto Mauro Russo, il primo violoncello ospite Amedeo Cicchese, il timpanista Andrea Bindi – e la psicologia dei protagonisti in scena.

A tal merito, professionista di livello altissimo si è rivelata ben oltre gli esiti qualitativi sin qui a noi noti il soprano napoletano Maria Grazia Schiavo (sopra, nella foto di Luciano Romano) che, ad oggi apprezzata voce barocca e del belcanto, ha voluto debuttare nel teatro della sua città in un ruolo, quello di Violetta, profondamente distante dalle sue corde sia per timbro che per sostanza. A maggior ragione se n’è apprezzato nell’occasione della “prima” il superbo lavoro di costruzione tecnico-espressiva messo a segno nell’arco dei tre atti entro l’evoluzione parallela, emotiva e canora, di un’emissione pronta a decollare dal piano delle agilità del I Atto verso punte liriche – magnifica nell’atto centrale l’intera scena quinta a duetto con Germont padre, in special modo sublime quel suo pianissimo cantato “da sé” e con “estremo dolore” sul pizzicato degli archi al termine del primo Cantabile – accanto ad apici di non comune verità toccati ad esempio nel vortice estremo posto in apertura dell’Atto terzo, tanto da aver fatto scattare anzitempo l’applauso del pubblico, a sua volta duramente e debitamente redarguito dal venerando Santi per il mancato rispetto della delicatissima chiusa strumentale. Parimenti lontani dal ruolo, ma molto meno rigorosi e interessanti in termini prettamente vocali, sia l’Alfredo del tenore Ismael Jordi che il Giorgio Germont del baritono Giovanni Meoni: il primo, più adatto ai titoli d’inizio Ottocento, sfoderava un colore fin troppo aperto e una dizione da rivedere qua e là (dalle quinte non si può sentire quel suo “croce e delitia”) accanto alla disomogeneità fra le diverse zone raggiunte girando la voce; il secondo, viceversa, fin troppo omogeneo quanto poco profondo, con spinte e vibrato entrambi inutili al fine. Nel complesso, se si eccettuano sfasature metriche accusate sia fra podio e Coro, sia nella nuova realizzazione coreografica (di Lienz Chang), molto bella ma troppo veloce per le zingarelle, l’opera funziona (brave sia la Flora di Giuseppina Bridelli che l’Annina di Marta Calcaterra) e, in via crescente, accende la platea.

Si replica fino al giorno 13 alternando altra bacchetta (Maurizio Agostini) e diverso cast (Cinzia Forte, quindi Jessica Nuccio canteranno Violetta accanto all’Alfredo di Stefano Pop, poi Merūnas Vitulskis, e al Germont padre di Marco Caria) mentre, la sera del 15, l'allestimento andrà in scena al Teatro Gesualdo di Avellino.

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