Un Don Pasquale oltre il comico ottocentesco, borghese e pungente, raccontato per lo più in bianco e nero con una punta di acre cinismo attraverso la scena unica di una veranda liberty girevole, in bilico fra l’illusoria leggerezza di vetrate argentee, dalle seducenti volute floreali dell'Art Noveau, e una moderna ossatura metallica. Lo ricordiamo bene - a differenza di talune firme oggi con indegna arroganza e senza preparazione alcuna improvvisatesi nel non facile percorso storico-musicale come nella scrittura critica - il particolarissimo allestimento che Roberto De Simone ebbe a creare nei primi anni Novanta dello scorso secolo per il Teatro Lauro Rossi di Macerata, quindi portato in scena con successo al San Carlo a fine febbraio del 1992 con una spregiudicata Elizabeth Norbert Schulz nei panni di Norina e il grande Bruno Praticò nel ruolo del titolo.
Ebbene, quello stesso allestimento nato dalla premiata triade De Simone-Rubertelli-De Vincentiis, già ripreso nell’estate 2009 per l’inaugurazione del Festival sancarliano d’Oltremare, torna da stasera (ore 20.00) nel rimontaggio curato da Ivo Guerra in chiusura del San Carlo Opera Festival, con quattro spettacoli in totale e repliche fino al 3 ottobre.
Il cast del dramma buffo in tre atti, scritto secondo leggenda in appena 11 giorni (in realtà numerosi i ripensamenti, sin dal ’42) e in collaborazione con il librettista Giovanni Ruffini, rappresentato in prima battuta nel 1843 con esito strepitoso al parigino Théâtre des Italiens (Salle Ventadour, con l’eccellente basso napoletano Lablache al fianco dell’ottima Giulia Grisi) e, al San Carlo, nel 1850 (si vedano, nelle immagini sottostanti, gli elenchi tratti dall’Archivio storico del Teatro) stavolta è così formato: Paolo Bordogna in Don Pasquale, Antonino Siragusa per Ernesto, Barbara Bargnesi nel ruolo di Norina più Mario Cassi (Dottor Malatesta) e Rosario Natale (un notaro).
Sul podio di Orchestra e Coro (preparato da Marco Faelli) della Fondazione, Chrisopher Franklin, direttore americano che torna al San Carlo dopo un'applauditissima Vedova allegra in stagione nel 2010.
Al centro della rilettura desimoniana? La modernità del capolavoro comico di Donizetti (di tutt’altra natura, invece, il sentimentale “Elisir”) determinata dal definitivo abbandono degli schemi dell’opera buffa di conio partenopeo e rossiniano (di cui, però, conserva ingredienti “cardine” quali l’intrigo e il travestimento), nonché dall’impiego di inediti stilemi musicali atti a trasformare la farsa in dramma. La comicità della vicenda, tratta dal Ser Marcantonio di Anelli e giocata sull’inossidabile innamoramento del vecchio tutore per la giovane pupilla, si stempera entro le pareti di un interno borghese. Un interno romano nel quale la sincerità degli affetti si ribalta in lucido cinismo e in cieca brama di denaro. D’altra parte, un riflesso della chiusura individuale romantica leggibile tra le venature volte al patetico del giovane amante Ernesto, a metà strada tra filone buffo e, appunto, nuove prospettive amorose ottocentesche. Analogamente il protagonista, l’ardente settantenne Don Pasquale, “vecchio celibatario tagliato all’antica, economo, credulo, ostinato” ma, tutto sommato, “buon uomo” accantona la maschera buffa per diventare attore, personaggio di una commedia moderna, lontano dalle argute ma semplici convenzioni seriali dei Comici dell’Arte quanto vittima del crudele raggiro finale che sconsiglia di “ammogliarsi in vecchia età” per scansare “noie e doglie in quantità”. Di qui le distanze prese dal regista Roberto De Simone che, evitate tanto le abusate cornici goldoniane quanto ogni forma di “bouffonerie" settecentesca, salta in avanti di circa mezzo secolo ambientando la vicenda in piena Bella Époque. «È necessario ricordare - aveva dichiarato il Maestro nei giorni dell’esordio del “suo” Don Pasquale al San Carlo - che l’opera infrange ogni legame con la tradizione, dall’opera buffa del secolo precedente alla comicità rossiniana. Il cinismo dei quattro personaggi, poi, unito alla vivacità della musica, mi hanno suggerito un’atmosfera "alla Offenbach": sensuale, edonistica, imperniata sul minimalismo di una gestualità quotidiana e, tuttavia, aliena da riferimento storici o realistici. Un’opera che, insomma, non intende scivolare nella farsa provinciale».
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